Virus ancestrali, vespe di panama e “prassomorfismo”
“Coronavirus spike protein structure” by National Institutes of Health (NIH) is licensed under CC BY-NC 2.0
La ricerca sulle vespe panamensi condotta da un gruppo di ricercatori entomologi ed etologi della Zoological Society of London (“Why insects get such a buzz out of socializing”, Richard Jones, 2007) si prefiggeva di dar lustro, attraverso nuovi dispositivi elettronici, alle consolidate basi della teoria secondo la quale gli insetti sociali hanno rapporto di convivenza e tolleranza solo con i membri del proprio alveare. Questo assunto era consolidato dalla logica poco attaccabile e dal buon senso paradigmatico che vedeva ogni ospite come indesiderato, non potendo sostituirsi agli autoctoni dell’alveare di nascita.
Una regola sociale ben delineata, ma prassomorfica.
Una volta che i ricercatori analizzarono i dati ne emerse una realtà totalmente diversa: ben oltre la metà degl’insetti monitorati cambiava alveare. Tutto ciò avveniva in un contesto non bellicoso, ma di estrema socializzazione. Nessun ospite nell’alveare di elezione veniva discriminato o considerato diverso. I dati erano soverchianti rispetto ai paradigmi che si volevano suffragare. Spiazzati, i ricercatori, ancorati ai preconcetti base che li avevano spinti, cercarono in primo luogo di armonizzare i dati con la precedente visione, ipotizzando che le vespe accettate nell’alveare di elezione in realtà non erano considerate estranee perché parenti. Spiegazione inattendibile perché pleonastica: come avrebbero infatti distinto le vespe estranee da quelle a loro imparentate?
Questo recalcitrante flusso di direzione verso stereotipi o archetipi radicati è un errore frequente nei programmi di ricerca che tentano di avvalorarli: celano la viziosa circolarità del processo. Anche di fronte all’emergere di nuove direzioni l’ancoraggio ai vecchi paradigmi risulta un fattore discriminatorio per i dati evinti dalla ricerca.
Vediamo come questo può avvenire anche nelle interpretazioni neodarwiniste delle evidenze biologiche e come riguarda i virus e le nostre origini.
Cosa sono gli ERV?
Nel nostro DNA e in quello di altre specie viventi ci sono sequenze che hanno delle similitudini con quelle prodotte dalle invasioni virali. La presenza di queste similitudini e la contemporanea assenza di virus ad esse connesse rappresenta, secondo l’interpretazione neodarwinista, una delle principali indicazioni di modificazioni vestigiali del DNA occorse in passato, reliquie che testimoniano antiche invasioni virali dell’organismo in questione.
Si ipotizza infatti che il virus aggressore abbia invaso nel passato un organismo, lasciando la sua traccia nel DNA dell’ospitante, traccia costituita da sequenze genetiche indispensabili alla sopravvivenza dello stesso virus (anche se “sopravvivenza” è un sostantivo improprio per un virus perché non vengono definiti come “viventi” dalla scienza).
Attraverso la duplicazione cellulare, questa traccia sarebbe stata replicata e trasmessa ai DNA della progenie dell’ospitante sotto forma di sequenza vestigiale, priva di una qualunque funzione legata alla sua provenienza e inerte da un punto di vista molecolare, ma rivelatrice del passaggio di quel virus e soprattutto del legame di possibile discendenza evolutiva tra gli organismi aventi questa stessa traccia, anche di fronte a episodi di speciazione.
La sigla ERV sta quindi per “Endogenous Retro Virus”: “retrovirus”, un tipo di virus che sfrutta il meccanismo molecolare di retrotrascrizione delle proprie informazioni genetiche per replicarsi; “endogeno”, che deriva dall’organismo ospitante: ogni nuova cellula che viene replicata in questo organismo conterrà quindi quella sequenza nel suo DNA, sequenza proveniente dal meccanismo endogeno di duplicazione del materiale genetico, sebbene nel passato provenisse inizialmente da un organismo estraneo, un’origine esogena.
L’argomento degli ERV è molto complesso e legato ad un meccanismo ancor più complesso chiamato trasposizione: il nostro DNA è composto da una minoranza di sequenze, dette geni, che codificano i “pezzi” dei meccanismi di funzionamento della cellula, le proteine. Il genoma, infatti, comprende solo circa l’1,8% del DNA se non si contano, per esempio, gli introni, ovvero “spazi” che separano le sequenze codificanti le proteine. Il resto del DNA, quindi circa il 98,2%, è composto da varie sequenze non codificanti, suddivise in varie parti e classi, il cui vero scopo spesso non è ancora pienamente compreso (o non lo è del tutto): questo DNA viene spesso chiamato “DNA non codificante” o “DNA spazzatura”, sulla base dei presupposti neodarwinistici che lo consideravano tradizionalmente inutile.
Tra questo 98,2% di sequenze non codificanti esistono due classi, i trasposoni (circa il 3%) e i retrotrasposoni (circa l’8%), chiamati anche trasposoni LTR, “Long Terminal Repeats”, lunghe sequenze ripetute: gli ERV sono retrotrasposoni, ovvero sequenze di DNA che hanno in testa ed in coda le sequenze LTR e al centro un’altra sequenza.
Sequenze virali?
È in effetti possibile che alcuni di questi retrotrasposoni LTR rappresentino, in certi casi, sequenze di DNA retrotrascritte da virus, alcuni di questi funzionano proprio con un simile sistema di trascrizione inversa nel genoma invaso e sfruttano i meccanismi di creazione delle proteine dell’organismo ospitante per produrre e replicare quelli appartenenti e utili esclusivamente “a loro”.
Questo complicato processo coinvolge il virus e le sue macchine molecolari, che cooperano con quelle funzionanti nelle cellule ospitanti allo scopo di inserire, in specifici tratti del DNA invaso, le sequenze proprie al virus, con l’obbiettivo di farle replicare dalle proteine cellulari dell’organismo ospitante, le quali non possono in alcun modo distinguerle da quelle della cellula invasa. Il virus da immunodeficienza umana o HIV, il retrovirus più famoso, opera attraverso tre proteine: una volta introdotte nella cellula invasa, esse favoriscono l’inserimento e la replicazione del materiale genetico del virus. Il proteoma cellulare che si occupa della trascrizione e della traduzione, le nano-macchine che operano normalmente nella cellula per svolgere questi compiti, ricrea i “pezzi” utili all’HIV “pensando” di produrre i propri.
Semplificando estremamente con un’illustrazione: una linea produttiva di una fabbrica di automobili (proteoma della cellula invasa) ospita operai disonesti (virus) che sfruttano la catena di montaggio a proprio uso e consumo, sostituendo gli stampi della fabbrica con i propri per produrre così pezzi utili esclusivamente alle loro automobili. A lungo andare, se non si adottano misure disciplinari, gli operai disonesti inficerebbero la linea produttiva così gravemente da far fallire l’intera azienda.
Tra le 3 proteine virali dell’HIV c’è l’integrasi, la nano-macchina che integra la sequenza retrotrascritta dall’RNA del virus nel DNA della cellula ospitante: questo verrà nuovamente poi trascritto e tradotto per produrre le macchine molecolari che servono all’invasore (il pezzo dell’automobile dell’operaio).
L’integrasi utilizza proprio le sequenze LTR, poste in testa e in coda alle specifiche sequenze virali, per l’inserimento delle stesse nel DNA ospitante, che vengono in seguito definitivamente allocate da altri enzimi cellulari. Queste, oltre a servire alla produzione delle proteine virali, vengono trasmesse alle generazioni successive grazie alla duplicazione cellulare, spesso senza variare molto nella loro specifica sequenza di nucleotidi: risultano infatti conservate per una percentuale piuttosto alta (più del 70%).
In presenza di sequenze LTR è possibile concludere che si tratti sempre di un’evidenza vestigiale di virus, tracce di invasioni remote in organismi che erano nostri antenati? Se analizzassimo un genoma di un organismo proposto come antenato di un altro e ritrovassimo in entrambi sequenze ERV identiche o pressoché tali, potremmo concludere che questo fatto è una prova di relazione evolutiva tra i due organismi?
Perché è importante la funzione?
Un modo per sapere se queste sequenze sono davvero vestigiali è quello di stabilire se hanno una funzione, ovvero se vengono trascritte e a cosa servono. Perché questo potrebbe essere un buon modo per verificare la questione sollevata dalla precedente domanda? Perché la cellula è un sistema vivente talmente efficiente che, se può evitare di fare qualcosa risparmiando energia, evita di farlo il prima possibile e tutto ciò che non è indispensabile per la sopravvivenza in un dato ambiente viene eliminato o disattivato.
Questa autoregolazione ed ottimizzazione avviene per mezzo di diversi e complicati sistemi di gestione dell’informazione biologica che sfruttano processi elettro-chimici-meccanici, nonché semiotico-informatici. Se queste sequenze ERV si dimostrassero legate a funzioni dell’organismo e delle sue cellule, si potrebbe concludere con logica che, almeno in quel caso, non si tratta di vestigia di virus, in quanto una sequenza ereditata da un virus serve a produrre macchine molecolari utili solo al virus e non ai processi della cellula e dell’organismo ospite, come acclarato per l’HIV. La sequenza interna ai due LTR che il virus inserisce nel DNA ospitante codifica le proteine che servono a compiere specifiche funzioni di replicazione dello stesso virus e quindi risulta completamente aliena ai processi produttivi della cellula. Oltretutto, se questi ERV non trovassero corrispondenza con nessun virus documentato questa conclusione potrebbe rivelarsi ancora più avvalorata.
Possiamo confermare che è ormai ampiamente stabilito che gli ERV esprimono diverse funzioni in diversi organismi, funzioni che svolgono compiti che vanno dai più semplici e diretti a quelli più complessi e universali all’interno del mondo cellulare. Diversamente dall’interpretazione neodarwinista il fatto che le sequenze ERV possiedano funzioni utili alla cellula non è spiegato solo ed esclusivamente dalla possibilità, peraltro incalcolabilmente remota, che queste siano state selezionate dai processi evolutivi e trasformate rispetto alla loro condizione primordiale di parti di virus invasori. Per quanto ne sappiamo, infatti, non esiste al momento nessun modello, a un ragionevole livello di dettaglio, in grado di dimostrare la plausibilità di queste transizioni.
Le differenze in termini sequenziali tra una proteina virale, come per esempio l’integrasi, e una qualunque delle decine di migliaia di proteine in una cellula sono abissali. Da un punto di vista molecolare le ipotetiche forme intermedie teorizzabili incontrerebbero l’insormontabile ostacolo degli “stadi maladattivi”, inevitabili per cambiamenti di sequenza e conseguentemente di struttura così grandi: la selezione naturale, così efficace nell’ottimizzare macchine molecolari aventi già funzioni vantaggiose per l’organismo (ma notoriamente in estrema difficoltà quando si tratta di innovare), avrebbe certamente scartato proteine in fase di “trasformazione evolutiva funzionale” ma senza una qualunque funzione in grado di conferire subito un vantaggio evolutivo netto alla cellula.
Approfondiamo ora alcune tra le funzioni degli ERV per comprendere meglio la loro origine e affrontare l’ipotesi di usare queste sequenze per delineare una correlazione evolutiva tra le specie.
Segnali di adesione e promotori
Per rispondere scegliamo uno a caso tra le centinaia di articoli scientifici recenti sugli ERV:
“Promotori retrovirali nel genoma umano”
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18535086
Come si può notare dall’abstract della pubblicazione scientifica appena indicata, questi elementi ERV “contribuiscono come promotori”. Semplificando estremante, un promotore è una sequenza specifica, un “segnale”, che in definitiva promuove una serie di condizioni volte a permettere all’RNA polimerasi (una meravigliosa macchina molecolare enormemente complessa, formata da decine di proteine diverse che interagiscono tra loro) l’aggancio nell’esatto punto del DNA in cui deve effettuare la trascrizione della sequenza che procede da quel punto in poi; tutto questo avviene spesso attraverso il legame con altre decine di proteine che favoriscono queste adesioni: grazie a questa specifica ed esatta sequenza viene prodotto, per esempio, l’RNA messaggero (o mRNA), il quale viene usato successivamente dai ribosomi, anch’essi enormi complessi proteici formati da circa 80 polipeptidi, per produrre, in definitiva, le proteine.
È possibile che questi ipotetici resti di virus possano essersi tramutati in promotori di trascrizione del DNA polimerasi e interagire in un processo così incredibilmente complesso e specifico delle cellule e dell’organismo ospitante? Ipotizzando una cooptazione rapida o pressoché immediata abbiamo un enorme problema probabilistico di corrispondenza sequenziale tra gli ERV e i fattori proteici coinvolti nella trascrizione che difficilmente può essere risolto appellandosi al tempo e alla quantità di organismi (per citare una comune argomentazione al riguardo). Diversamente, ipotizzando una spiegazione più gradualistica, esattamente come i consueti processi evolutivi di mutazione e selezione avrebbero potuto operare per ottenere questo risultato?
Il “segnale” rappresentato da una sequenza di promozione ha una specificità con costrizioni molto restrittive: per ottenere una sequenza che vi aderisce non possiamo fare ricorso a un processo che opera con “tentativi” di approssimazione casuale, soprattutto se lo stesso processo scarta anche ciò che non vi aderisce. L’ordine dei nucleotidi della sequenza deve permettere un’adesione al sito di legame della proteina (o del gruppo di proteine) al punto di stabilità necessario per consentire al sistema di funzionare e sappiamo che questo legame avviene a livello dei singoli atomi che compongono le molecole della sequenza. Si esclude pertanto la possibilità che la costituzione di questo legame avvenga incrementalmente nel tempo, un nucleotide alla volta.
Lo stampo dell’operaio disonesto, riprendendo l’illustrazione della catena di montaggio, utile per la produzione dei pezzi della sua automobile, andrebbe modificato appositamente, immediatamente e completamente da una mente intelligente per poter essere utilizzato nella linea produttiva dell’azienda, sia se operasse da stampo vero e proprio che da interfaccia meccanica per un altro strumento o per un altro stampo: nel caso che questo pezzo “abusivo” non funzionasse subito, le macchine sulle quali si monta o lo stampo che ospiterebbe si potrebbero danneggiare, rivelando l’attività fraudolenta; oppure, le manovre per modificarlo, adattarlo e provarlo desterebbero pericolosi sospetti sull’operaio disonesto (l’eliminazione delle molecole senza una funzione utile alla cellula da parte del sistema immunitario o della selezione naturale).
L’articolo continua indicando che esistono diversi tipi di promotori della trascrizione codificati nel DNA: in questo caso lo studio rivela che su 51.197 sequenze ERV che hanno funzionalità da promotori si sono scoperti 1743 casi che hanno la caratteristica di risultare vicinissime al gene e che vengono chiamati “promotori prossimali”, una tipologia di promotori che presenta spesso elementi altamente conservati, ovvero identici in organismi diversi, ad indicare un livello di costrizione funzionale molto rigida ed estesa.
È possibile che 51.197 sequenze del DNA si siano trasformate da fossili di specifiche proteine virali con una precisa funzione a sequenze a cui aderiscono le macchine molecolari della cellula per la trascrizione dei geni, alcuni dei quali altamente conservati? È possibile che questa transizione sia avvenuta non solo in così tanti casi, ma anche per tipologie così diverse e specifiche che coinvolgono l’adesione di così tante diverse e specifiche proteine della cellula?
Inoltre, l’articolo parla di 114 promotori derivati da ERV che guidano la trascrizione di 97 diversi geni umani. È possibile che questi 97 geni codifichino proteine con funzioni secondarie, considerata la loro ipotetica origine da un meccanismo virale esogeno?
Sembra proprio di no, anzi, proprio l’opposto: l’articolo spiega che i geni “promossi” dagli ERV codificano specifiche proteine tessutali e intervengono in sistemi più generici di espressione genica, quindi combinandosi in un tutt’uno con processi comuni anche ad altre “linee di produzione” ma di grado più “elevato”, fatto che propende verso l’evidenza che le costrizioni di specificità siano ancora più stringenti. Inevitabilmente l’articolo conclude dicendo che “questi dati suggeriscono che gli ERV possano regolare la trascrizione umana su larga scala”.
Funzionalità pervasiva e paradigmi vacillanti
È possibile che queste sequenze siano passate dall’essere “pezzi” di virus di periferia a rappresentare funzioni indispensabili nell’uomo, l’eucariota “più evoluto”, non solo per decine e decine di specifiche proteine, ma anche per sistemi generici di espressione? L’elenco che segue è solo un’estrema sintesi di ciò che è emerso e che sta emergendo in maniera preponderante dalla ricerca scientifica legata a queste sequenze:
– Sin dal 1999, si è scoperto chiaramente che la trascrizione di geni umani coinvolti nella produzione di cellule sanguigne è regolata dall’LTR di un retrovirus endogeno.
– Gli LTR di elementi retrovirali contengono promotori di trascrizione che aiutano a regolare l’espressione di geni umani coinvolti nel metabolismo del grasso e nella comunicazione cellulare nel fegato e nella placenta.
– Si è scoperto che molti ERV sono in realtà promotori di trascrizione che aiutano a regolare l’espressione di geni presenti negli ovociti e negli embrioni dei topi.
– ERV intervengono nella produzione di cellule embrionali e di cellule ematopoietiche nei primati.
– ERV umani contengono promotori che regolano l’espressione dei geni relativi a funzioni di trasporto del bicarbonato, del tratto intestinale, delle ghiandole mammarie e dei testicoli, tessuti e altre varie specificità cellulari.
Il paradigma evolutivo del “DNA spazzatura”, o “junk-DNA”, ha sempre sostenuto la tesi secondo la quale solo le sequenze genomiche codificanti e poco altro hanno uno scopo ed un’utilità per l’organismo: il resto sono reliquie vestigiali evolutive, lande desolate di funzionalità nelle quali i processi evolutivi hanno avuto la possibilità di provare e riprovare a generare funzione, ovvero innovazione biologica, che si è poi trasformata in geni codificanti proteine. Anche gli ERV rientrano più o meno in questa lettura: sarebbero anch’essi spazzatura proveniente da invasioni virali.
Il titanico progetto di ricerca “ENCODE” (non affrontato in questo articolo) si aggiunge agli argomenti presentati, dimostrando che per una piccola parte delle cellule esaminate, rispetto alla enorme varietà esistente, un minimo di 80% del DNA possiede una qualche funzione, nella maggior parte dei casi sconosciuta, di fatto cancellando il paradigma del “DNA spazzatura.
Anche la ricerca scientifica sugli ERV contribuisce a sfatare questo mito, con la sola importante differenza che, per quanto riguarda gli ERV, la loro funzione è spesso ben compresa e studiata. Non possono essere tentativi d’ancoraggio ai vecchi paradigmi, dogmatiche descrizioni altamente speculative, sull’ipotetica origine di queste importanti sequenze a relegarle definitivamente in un ruolo che non sembra affatto appartenergli, come assurge dai dati delle ricerche a nostra disposizione. Il fatto che gli ERV siano presenti in organismi ritenuti imparentati evolutivamente (un effetto) pretende di essere anche una spiegazione del perché possiedano una funzione utile all’organismo (la causa): in qualche modo, questi ipotetici ex-virus sono diventati utili all’organismo, espletando funzioni altamente specifiche in intricati e complessi sistemi cellulari. Sul come ciò sia avvenuto non esistono dettagli, solo dogmatici modelli, che sembrano divergere dalla direzione fornita dai dati evinti.
Gli ERV letti in questo modo limitano la scienza all’applicazione d’inferenze indispensabili alla teoria neodarwinistica, contribuendo a interpretare la loro funzione non tanto sulla scorta dei dati empirici, ma sui preconcetti archetipici di quello che la teoria dominante vorrebbe che fossero. Come per le vespe panamensi, la circolarità di alcune conclusioni non riveste la ricerca della dignità scientifica che promuove, ma si assoggetta al prassomorfismo dominante.
(di Carlo Alberto Cossano e Cristian Puliti)
Buongiorno. Credo che per confutare totalmente la questione dei retrovirus endogeni, sia necessario trattare la questione dell’ assoluta improbabilità delle 205 infezioni virali che piazzano lo stesso retrovirus nello stesso locus. Credo che questo argomento sia fondamentale. Aspetto una vostra risposta. Grazie.
Buongiorno Donato, interessante commento, che ci piacerebbe approfondire: potrebbe essere più specifico, magari citandoci qualche riferimento in più a cui si riferisce? Grazie.