La dialettica dell’Universo – Terza parte
La dialettica dell’Universo
Terza parte
Semplice e complesso
Uno e molteplice: uno dei problemi più affascinanti della storia della filosofia e della teologia. Esso richiama inevitabilmente la questione del processo di differenziazione a partire dalla singolarità cosmologica.
La straordinaria pluralità dei corpi che popolano l’Universo ebbe origine da uno stato fisico detto singolarità cosmologica dai fisici moderni, atomo primitivo
da Lemaître, punto (matematico)
dal geniale matematico e meteorologo russo Aleksandr A. Friedmann (1888-1925). Agli inizi del XX secolo l’immagine di un Universo newtoniano spazialmente infinito fu messa in scacco da obiezioni come il paradosso di Olbers. Secondo il medico e astronomo tedesco Heinrich W. Olbers (1758-1840), che rielaborò un’obiezione in verità già circolante contro l’infinitezza cosmica, se l’Universo era infinito, infinito doveva essere il numero di stelle che lo popolavano; ora, una quantità infinita di stelle avrebbe prodotto una quantità infinita di luce, cosicché la volta celeste sarebbe dovuta apparire permanentemente illuminata, senza alternanza fra dì e notte. Olbers, sostenitore di un Universo infinito, affrontava questa stessa obiezione sostenendo che Dio avrebbe disposto nello spazio delle particolari zone di materia per assorbire una quantità ideale di luce delle stelle, permettendo così all’uomo di ammirare le meraviglie del cielo notturno. L’astronomo, ovviamente, non si rendeva conto – non disponeva delle conoscenze fisiche necessarie – del fatto che i fotoni assorbiti dalla materia interstellare avrebbero riscaldato quest’ultima rendendola incandescente, dunque più luminosa che mai.
All’inizio del XX secolo, a poco valsero modelli di Universo infinito che tentavano di rispondere a paradossi come quello di Olbers mediante vari “stratagemmi”, come ad esempio il pur interessante Universo gerarchico dell’astronomo svedese Carl W. L. Charlier (1862-1934).
Vi è da dire che in un certo senso esiste davvero una luce che permea l’Universo giorno e notte, in qualsiasi direzione: la già citata radiazione cosmica di fondo a microonde. Visivamente, essa non crea tuttavia alcun fastidio per l’uomo, perché non è rilevabile dall’occhio, ma solo strumentalmente, osservando nella regione delle microonde: dall’epoca della sua formazione, infatti, essa si è diluita tanto da finire in quella regione dello spettro elettromagnetico.
Nel 1917, in piena Grande Guerra, Albert Einstein (1879-1955) applicò la relatività generale allo studio dell’Universo globale nell’articolo Kosmologische Betrachtungen. Ne emerse un modello di Universo finito – ma illimitato – sferico (in realtà cilindrico, caratterizzato dalla geometria riemanniana) e in equilibrio fra la gravità, che tenderebbe a farlo contrarre, e una forza repulsiva anti-gravitazionale espressa dalla costante cosmologica (λ). Di passaggio, mi preme sottolineare come non vi sia contraddizione fra finitezza e illimitatezza: finito indica un volume di spazio di dimensioni contenute, illimitato ne indica uno sulla cui superficie non è possibile rinvenire un confine. La Terra, per esempio, è un corpo di volume finito, ma a superficie illimitata: se su di essa si potesse mai stendere una “passerella planetaria”, vi si potrebbe camminare a piacimento, senza mai precipitare nello spazio cosmico, e tornando prima o poi al punto di partenza. Questo è anche ciò che accade nell’Universo einsteiniano.
Einstein scrisse che la costante cosmologica, alla quale aveva arbitrariamente attribuito valore positivo, era stata introdotta senza alcuna evidenza osservativa. Essa fu però esplicitamente necessaria per conservare un Universo statico (insomma: un artifizio ad hoc): Einstein non avrebbe sopportato – e non lo farà fino al 1931, quando comunicò di aver cambiato parere nel corso di una conferenza stampa convocata a Mount Wilson – l’idea di un Universo in espansione, che sarebbe invece naturalmente scaturito dalle stesse equazioni relativistiche. Più tardi, Einstein avrebbe pure eliminato la costante cosmologica, definendola l’errore più grande della sua vita. Lemaître, invece, la ritenne fondamentale e lavorò per recuperarla a tutti i costi. La cosmologia moderna l’ha di fatto recuperata nella forma dell’energia oscura, che spiegherebbe l’accelerazione dell’espansione cosmica. Ricordo che Einstein teorizzò il modello cosmologico del 1917 in un’epoca nella quale non era ancora stato risolto il Great Debate, cioè la questione se la Via Lattea fosse o meno l’unica galassia esistente nel Cosmo. Il dibattito sarebbe stato risolto a favore della pluralità delle galassie da Edwin P. Hubble (1889-1953) nel 1923.
Con l’articolo Un univers homogène de masse constante et de rayon croissante (1927) Lemaître fu il primo cosmologo in assoluto a spiegare i redshifts delle galassie a mezzo dell’espansione dello spazio. I redshifts delle nebulose – dunque identificate come galassie esterne alla Via Lattea grazie a Hubble – erano noti sin dal 1912 in virtù delle osservazioni compiute dall’astronomo americano Vesto M. Slipher (1875-1969). Per una serie di ragioni sulle quali non entrerò in dettaglio, il successo dell’articolo di Lemaître sarebbe giunto solo qualche anno dopo.
Nel 1931, ormai cosmologo di fama internazionale e sostenuto da grandissimi nomi dell’astronomia mondiale, Lemaître pubblicò in Nature un brevissimo articolo intitolato The beginning of the world from the point of view of quantum theory,
nel quale presentò l’ipotesi dell’atomo primitivo. Due i capisaldi per giungere all’idea di questo atomo o quanto unico primordiale, dal quale tutto sarebbe derivato: l’energia totale dell’Universo si conserva costante, ma esiste sottoforma di pacchetti (quanti), il cui numero aumenta – per frammentazione – nel corso del tempo. Lemaître, al corrente delle scoperte della fisica nucleare del primo Novecento – in particolare delle ricerche di Antoine H. Becquerel (1852-1908), che aveva scoperto che i composti dell’uranio emettono raggi particolarmente penetranti, alcuni dei quali rappresentati dalle particella alfa – conosceva la tendenza spontanea degli elementi radioattivi al decadimento (ricordava spesso come un atomo di uranio decada spontaneamente in alcuni atomi di piombo ed elio), passando dal semplice (simple) al composto (composé). Il cosmologo belga si chiedeva a questo punto: se questa tendenza alla polverizzazione o scomposizione da parte della materia vale nel micro, perché non dovrebbe valere anche nel macro? Dunque, dal punto di vista quantitativo la materia possiede una tendenza naturale a frammentarsi, a passare dal semplice al complesso, tanto da dire, in una conferenza:
«Non posso far di meglio che ripetere, parafrasandole, le parole di Kant: “Datemi un atomo, e ve ne farò l’universo”» (Ipotesi cosmogoniche, 1945, traduzione mia).
Il riferimento è al giovane Kant dell’Allgemeine Naturgeschichte, ove il filosofo parla della creazione iniziale divina della materia che in seguito, sottoposta un intento sommamente saggio e a leggi sapientissime, avrebbe condotto alla formazione di numerosi, anzi infiniti sistemi stellari, da egli denominati systematische Verfassungen (“costituzione sistematiche”, in pratica equivalenti a sistemi solari estranei al nostro). E scriveva il giovane Kant:
«Datemi della materia e vi costruirò un mondo! Ossia, datemi della materia e io vi dimostrerò come debba sorgere un mondo» (Allgemeine Naturgeschichte).
Dopo la creazione di una materia primordialmente informe, per Kant sarebbero bastate due forze per condurre alla formazione degli infiniti sistemi stellari permeanti il kosmos, altrettanto infinito: attrazione gravitazionale e repulsione centrifuga. Ecco la formazione di uno di essi: per una serie di ragioni fisiche, in una determinata regione dello spazio alcune particelle di materia avrebbero iniziato a esercitare una gravità intensa e sempre crescente. Un movimento rotatorio, perfettamente bilanciato fra attrazione e repulsione, avrebbe poi condotto, attraverso diverse fasi, alla generazione di un corpo centrale attorniato da altri corpi. Sarebbero poi seguite varie altre fasi per giungere a un sistema compiuto, ma qui ci fermiamo. L’interazione fra attrazione e repulsione, per esempio, avrebbe portato alla formazione del Sistema Solare. Oggi l’astronomia ritiene sia anche all’origine della formazione della Via Lattea (ipotesi di Kant-Laplace).
Torniamo a Lemaître. Se la “polverizzazione” dell’atomo primitivo conduce alla produzione di frammenti – e tra i frammenti emergono elettroni, protoni, particelle alfa eccetera – in numero sempre maggiore con il passare del tempo, allora per converso retrocedendo nella storia del Mondo si troverà un numero sempre inferiore di tali frammenti; andando abbastanza indietro nel tempo – miliardi di anni – l’intera massa cosmica risulterà raccolta in un’unica entità: l’atomo primitivo (o quanto unico). Moltissimi di questi frammenti smisero di sbriciolarsi quando divennero troppo piccoli, mentre alcuni, come per esempio l’uranio, continuerebbero a frammentarsi ancora oggi. Questo, peraltro, porrebbe anche un limite all’età dell’Universo, poiché se l’Universo fosse troppo vecchio, elementi di questo tipo non sarebbero oggi più rinvenibili, ma risulterebbero ormai completamente scomparsi per disgregazione. L’uomo, dunque, sarebbe comparso proprio al momento opportuno per contemplare e studiare la storia di un Universo relativamente giovane. Giovane, in quanto miliardi di anni sono comunque nulla rispetto all’eternità del Mondo pretesa da alcune cosmogonie precedenti.
L’atomo primordiale fu un atomo super-radioattivo, che si suddivise violentemente per decadimento spontaneo in un «gigantesco fuoco d’artificio» (un Big bang?), i cui residui di testimonianza sarebbero per Lemaître (erroneamente!) rappresentati dai raggi cosmici (oggi tale ruolo viene attribuito non a questi ultimi, bensì alla radiazione cosmica di fondo a microonde). L’atomo si frammentò appena iniziò a esistere (cfr. Georges Lemaître, L’ipotesi dell’atomo primitivo: saggio di cosmogonia, 1946).
Secondo il cosmologo belga l’Universo avrebbe 10 miliardi di anni e sarebbe governato dalle forze di attrazione e repulsione, la cui dialettica generò tre fasi principali nello sviluppo dell’Universo: un’iniziale espansione rapida; un periodo di relativa stasi, ove si formarono stelle, galassie, ammassi e superammassi galattici; una ripresa dell’espansione, stavolta accelerata (proprio come sostiene la cosmologia odierna). Nulla è possibile dire sull’atomo primitivo, caratterizzato da semplicità e omogeneità assolute, nonché da totale assenza di pluralità, tempo e spazio. Paradossalmente, quindi, l’inizio del Mondo – scrive Lemaître – avvenne “prima” dell’inizio del tempo e dello spazio. Tempo e spazio cominciarono a esistere solo quando il quanto o atomo originario si suddivise in un numero sufficiente di parti (numero comunque non precisato dal cosmologo belga):
«La parola “Atomo” deve essere intesa nel senso originale greco del termine. È da concepirsi nel senso di assoluta semplicità che esclude ogni molteplicità. L’Atomo è così semplice che nulla può esser detto su di esso, e non si può porre alcun quesito. Prevede un inizio che è completamente inaccessibile. È solo quando si è diviso in un ampio numero di frammenti che riempiono uno spazio di raggio piccolo, ma non strettamente zero, che le nozioni fisiche cominciano ad acquisire un qualche senso» (The primeval atom hypothesis and the problem of the clusters of galaxies, 1958, traduzione mia).
Tempo e spazio sono intimamente legati alla materia e al movimento, però assenti nel Cosmo dei primissimi microsecondi di vita. Tecnicamente, quindi, non si potrebbe neanche parlare di un “prima” dell’atomo primitivo. L’inizio dell’Universo di Lemaître è un “oggi” senza uno “ieri”, è un inizio al quale ci si può avvicinare con il pensiero e con la fisica solo asintoticamente, senza mai raggiungerlo:
«Possiamo paragonare lo spazio-tempo a una sezione conica. Si procede dal passato al futuro seguendo le generatrici del cono; si compie il giro dello spazio seguendo i cerchi paralleli. Al fondo della sezione vi è l’istante iniziale in cui l’atomo cominciò a disgregarsi, vi è il fondo dello spazio-tempo, l’oggi che non aveva ieri» (Hypothèses cosmogoniques, 1945, traduzione mia).
Oggi questa inconoscibilità si applica alla già menzionata èra di Planck. Alla voce Planck era, l’Oxford dictionary of astronomy dichiara persino che la comprensione di questa fase cosmologica sarebbe virtualmente non esistente (virtually non-existent: cfr. Oxford dictionary of astronomy, 2003). Secondo Lemaître l’atomo primitivo sfuggirebbe all’antinomia kantiana sull’inizio del Mondo, poiché uno stato così semplice della materia – a entropia zero – non può esser provenuto da uno stato fisico anteriore ancor più semplice.
Nella bozza originale dell’articolo The beginning of the world, che ebbi modo di visionare nel 2011 presso gli “Archives Lemaître” a Louvain-la-neuve (Belgio), esiste un passaggio che Lemaître decise di cancellare prima della stampa. Un vero peccato, perché straordinariamente emblematico:
«Penso che chiunque creda in un’entità suprema che sorregge ogni essere e ogni agire, creda anche che Dio sia essenzialmente nascosto e che potrebbe essere ben felice di constatare come la fisica contemporanea fornisca un velo che occulta la creazione» (traduzione mia).
L’impenetrabilità dell’istante iniziale, ammessa allora come oggi dai cosmologi, contribuisce a rendere impossibile la pretesa che nutriva Stephen W. Hawking (1942-2018) a proposito dell’avvento della da lui tanto sognata teoria del tutto, che sarebbe il «definitivo trionfo della ragione umana, poiché allora conosceremo il pensiero stesso di Dio» (La teoria del tutto: origine e destino dell’Universo, 2004). Naturalmente, per l’uomo che non abbia pretese di questo tipo il fatto che vi sia una porzione dell’essere cosmico inaccessibile alla conoscenza non crea alcun fastidio, ma contribuisce semmai ad aumentare il senso del mistero e il fascino verso il Cosmo stesso.
Nel 1848, in Eureka, il letterato statunitense Edgar A. Poe (1809-1849) si era incredibilmente avvicinato alla concezione dell’atomo primitivo con la sua primordial particle. Il testo, versione scritta di una conferenza, concepisce l’inizio del Mondo sottoforma di una particella primordiale omogenea, unica, in sé indivisibile e divisa solo per intervento della Volontà divina. Da questa divisione si sarebbe irradiato in tutte le direzioni, a più riprese, un numero elevato di atomi, poi variamente modulati dalla Volontà per addivenire all’Universo noto. In una nota Poe indica a se stesso di spiegare il processo di frammentazione come un «flash instantaneo». Connaturale alla materia sarebbe una tendenza al ritorno all’unità originaria, tuttavia impossibile da soddisfare finché sia attiva l’energia diffusiva degli atomi: una forza repulsiva impedisce, per il momento, il collasso e il conseguente ritorno all’unità. Una volta esaurita questa energia, il collasso avverrà inevitabilmente, e da lì il Cosmo vivrà un nuovo inizio, poi una nuova implosione, e così via secondo cicli infiniti.
A proposito dell’atomo primitivo, p. Vincenzo Arcidiacono S.J. (1910-2001), ingegnere, scrive che l’Universo si sarebbe sviluppato quasi alla stregua di una creatura vivente, cioè al modo dell’embrione a partire dal seme: da uno stato iniziale compatto a uno disperso, verso una divisione e riorganizzazione sempre più estensiva e molteplice di elementi fisici, tutti dapprincipio virtualmente concentrati nell’unità dell’atomo primitivo (cfr. Come si evolvono i cieli: 2: l’origine dell’universo, 1958). In Anassagora (V sec. a.C.) e Platone, rispettivamente il Nous e il demiurgo devono intervenire a ordinare una materia primordialmente informe e caotica. Qualcosa di simile avviene in alcune cosmogonie orientali antiche, ascrivibili all’uovo cosmico (l’Universo nasce come rottura di un embrione primordiale) o all’uomo cosmico (un gigante smembra se stesso, o viene smembrato, per costruire l’Universo).
Un luogo speciale nel Cosmo
Nell’Universo, la Terra possiede peculiarità speciali. Dal 1995 si conoscono circa 4.500 esopianeti, cioè pianeti esterni al Sistema Solare, individuati con metodologie molteplici, ma ci è nota solo la Terra con proprietà così importanti. Eccone alcune, variamente elencate da diversi astronomi:
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La distanza delle stelle dalla Terra. La Terra è situata in una zona della Via Lattea né troppo ricca né troppo povera di stelle. Una minor quantità di stelle renderebbe il cielo notturno molto più oscuro, cosa che avrebbe reso impossibile la stesura dei primi calendari, con gravi conseguenze sulla navigazione e sull’orientamento nei deserti e nelle steppe. Il Sistema Solare è collocato nel cosiddetto “Braccio di Orione” della nostra galassia – la Via Lattea, che conta circa 200 miliardi di stelle – e dista circa 26.000 anni luce dal centro galattico. Se si trovasse più vicino al centro, proprio laddove la galassia è popolata da grandiosi e numerosi ammassi stellari, il cielo sarebbe probabilmente illuminato in modo permanente, senza alternanza fra il dì e la notte.
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Il Sole è una stella ideale. Dal punto di vista delle dimensioni, il Sole è una stella media. Per l’uomo, tuttavia, il Sole non “medio”, ma essenziale per la vita, che dal Sole riceve una quantità sufficiente, non eccessiva, di luce e calore. Se la stella fosse più grande – come accadrà fra 5 miliardi di anni – brucerebbe la Terra; se fosse più piccola, luce e calore sarebbero troppo scarsi per la vita.
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La distanza della Terra dal Sole. La Terra non è né troppo lontana né troppo vicina al Sole, cosa che evita che la Terra bruci o sia avvolta da un ghiacciaio perenne.
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L’ideale velocità di rotazione terrestre. La rotazione della Terra possiede una velocità tale da ripartire in modo uniforme il dì e la notte. Una durata troppo lunga della notte provocherebbe un eccessivo raffreddamento del pianeta. Una rotazione troppo veloce produrrebbe tempeste e scuotimenti climatici sconvolgenti.
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La presenza della Luna. La Luna possiede dimensioni paragonabili a quella della Terra, e nel rapporto pianeta-satellite ciò è un fatto unico nel Sistema Solare. Con la sua gravità, la Luna agisce da freno alla rotazione terrestre, impedendone un’eccessiva rapidità.
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L’inclinazione dell’asse terrestre. Rispetto alla verticale, l’asse terrestre è inclinato di 23,5°. Ciò permette il ciclo delle stagioni noto, con costante rinnovamento primaverile della natura. Una maggiore inclinazione produrrebbe lo scioglimento estivo delle calotte glaciali, mentre una minore inclinazione non consentirebbe grandi variazioni di temperatura nel corso dell’anno, impedendo il ciclo delle stagioni.
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Il campo magnetico della Terra difende il nostro pianeta dal vento solare, un insieme di particelle che il Sole irradia in ogni istante e che bombardano costantemente la Terra. Il campo magnetico devia tali particelle verso i poli del pianeta, producendo le spettacolari aurore.
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La presenza d’acqua. La Terra possiede un campo gravitazionale e una distanza dal Sole tali da permettere la presenza di una grande quantità d’acqua sulla sua superficie, che ne è ricoperta per più del 70%. Meno gravità significherebbe più evaporazione d’acqua, per via di un’inferiore pressione atmosferica.
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L’esistenza di un ciclo delle acque unico nel Sistema Solare, che permette di disporre di acque pure, poiché in un ciclo completo l’evaporazione degli oceani e dei fiumi forma nubi e pioggia.
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La presenza di “difensori planetari”. Giove, pianeta re del Sistema Solare, ha un campo gravitazionale tale da attirare numerosi corpi che, di tanto in tanto, penetrano verso l’interno del Sistema Solare e che potrebbero minacciare la Terra. Questo è quello che accadde per esempio nel 1994, con la cometa Shoemaker-Levy (in questo caso, però, non era prevista alcuna minaccia per la Terra).
Il revival dell’infinito
Merita un cenno un argomento oggi assai diffuso presso chi contesta l’esistenza di un’Intelligenza alla base dell’Universo. Negli ultimi anni vi è stato, in cosmologia (e nella filmografia!), un ritorno sorprendente dei modelli di universi paralleli e del Multiverso. Si parla di interpretazioni a molti mondi, buchi neri
come porte d’accesso ad altri mondi, universi bolla
– tanti universi verrebbero prodotti a partire dalla schiuma quantistica di un Universo genitore –
wormholes, M-Theory, e molto altro. Si parla persino di selezione naturale cosmologica (cfr. Lee Smolin): si immagina la nascita di universi da altri universi, tutti formanti un infinito ed eterno Multiverso; analogamente all’evoluzionismo biologico, verrebbero selezionati gli universi più adatti alla sopravvivenza, allo sviluppo della vita intelligente, mentre tutti gli altri non avrebbero la possibilità di svilupparsi e finirebbero per morire, per esempio collassando. Un Universo in cui può svilupparsi vita intelligente è invece un Universo che “regge”, non collassa e non è disordinato. La conclusione di queste ipotesi è che fra infiniti universi, uno almeno (a rigore: infiniti) dovrà per forza ospitare la vita. Simili congetture, forse apprezzabili in contesto fantascientifico, non sono corroborate da dati empirici.
Ma ecco sorgere una domanda: siamo proprio sicuri che l’eventuale esistenza di altri universi, anche in numero infinito, sia in contraddizione con l’esistenza di un’Intelligenza? Utilizzando gli strumenti della filosofia scolastica, possiamo rispondere, risolutamente: no! Infatti, anche mondi infiniti avrebbero pur sempre fra loro una superiore unità di ordine, nonché una medesima relazione a una stessa causa efficiente. Così come non comproverebbe una cieca evoluzione l’esistenza di altre forme di vita intelligenti nel Cosmo.
Per concludere questo paragrafo, mi viene in mente un celebre aneddoto che vide per protagonisti Alessandro Magno (356-323 a.C.) e il filosofo Anassarco (IV sec. a.C.), che lo seguì nelle sue spedizioni in Asia:
«Sentendo Anassarco che discuteva sull’infinità dei mondi, Alessandro piangeva, e agli amici che gli chiedevano cosa lo addolorasse tanto rispondeva: “Non è forse necessario piangere, se i mondi sono infiniti e noi non ci siamo impadroniti neppure di uno di essi?”».
Considerazioni conclusive
La cosa veramente straordinaria dell’Universo è che si tratta di un Universo funzionante: tutti gli elementi, le forze e leggi si coordinano a formare un’entità complessiva ordinata, coordinata e armoniosa. Le leggi fisiche esprimono il costante comportamento dei corpi nell’agire e nel patire, la loro intrinseca tendenza a un determino fine (determinatio ad unum).
Nel modello cosmologico standard, la sfera osservabile dell’Universo è pari a 46 miliardi di anni luce, per un diametro totale di 92 miliardi. Eppure, stando alla teoria del Big bang, l’Universo iniziò la propria espansione circa 13,8 miliardi di anni fa. A che cosa è dovuta tale discrepanza? Non è corretto pensare che il nostro Universo debba possedere una dimensione di 13,8 miliardi di anni luce perché la luce ha viaggiato per 13,8 miliardi di anni: il valore di 46 miliardi deriva dal fatto che lo spazio, anche mentre le sorgenti luminose emettono luce, è in continua inarrestabile espansione. Così, mentre la luce ha viaggiato, lo spazio davanti e dietro a essa si è andato espandendo. Al di là di questa sfera osservabile vi è una porzione di Cosmo non osservabile, e dalla quale la luce non riuscirà mai a raggiungerci. È possibile che si tratti allora di un Universo infinito? La maggior parte dei cosmologi è scettica su questa eventualità. Né, d’altro canto, vi sono argomenti decisivi a suo favore. Orbene, all’interno della regione cosmica osservabile sarebbero contenute circa 7×1022 stelle, organizzate in circa 2×1012 galassie (2.000 miliardi), a loro volta raccolte in ammassi e superammassi. E la distribuzione delle galassie non è casuale, ma segue una disposizione stabilita dalla gravità. Il tutto a formare un gigantesco, immenso organismo che ospita vita razionale.
Dunque: ordine o disordine? Logicità o illogicità del Cosmo? A ognuno il proprio giudizio, sulla scorta delle considerazioni sin qui presentate.
Ma ecco adesso affacciarsi sulla scena un altro grande quesito cosmo-filosofico: quale fu la scintilla che diede avvio alla frammentazione dell’atomo primitivo, al Big bang o all’evento primordiale alla base della storia dell’Universo? In questa sede mi limiterò a segnalare un problema legato all’affermazione secondo la quale la materia sarebbe eterna. Si tratta di un dilemma: se la materia è da sempre esistita come entità autosufficiente ma a riposo, allora lo sviluppo dell’Universo non avrebbe mai avuto origine, perché il principio di inerzia smentisce la possibilità che una materia inerte (“in quiete”) dia movimento a se stessa; se invece la materia esiste da sempre ed è da sempre in movimento (divenire), essa non potrebbe comunque modificare il proprio movimento, giungendo a produrre qualcosa di ontologicamente nuovo, come la comparsa di esseri razionali, perché si tratterebbe di un immotivato e non giustificato “salto di qualità” nell’eterno movimento della materia, che dovrebbe, in linea di principio, verificarsi sempre nello stesso modo e con gli stessi risultati.
Infine, un’osservazione. Vale la pena sottolineare come la minima alterazione delle leggi che regolano la vita dell’Universo ne comprometterebbe la struttura intera, e con essa il suo funzionamento. In quest’opera meravigliosa che il Cosmo, è proprio vero che «nulla c’è da togliere, nulla da aggiungere» (Eccli 18, 5). Non trovo di meglio che riportare qui le parole dell’astronomo della NASA John A. O’Keefe (1916-2000):
«Se l’Universo non fosse stato fatto con la più esatta precisione, non saremmo mai potuti venire alla luce. Nella mia visione [delle cose], queste circostanze indicano che l’Universo fu creato affinché l’uomo vi vivesse. Vediamo, dunque, che la somiglianza fra la nostra cosmologia di oggi e quella dei teologi del passato non è puramente accidentale. Quanto essi videro vagamente, noi vediamo più chiaramente, grazie al vantaggio di una migliore fisica e di una migliore astronomia» (in Robert Jastrow, God and the astronomers, 1992).
Ma se ancora si desiderasse fare un ulteriore tentativo attirando l’attenzione sulla casualità
(anziché causalità) del mondo quantistico e dell’Universo primordiale come argomentazione che cozzerebbe contro l’Intelligenza, ebbene ricorderei con piacere le parole di Lemaître a conclusione della sua ultima intervista risalente all’aprile del 1966, due mesi prima di morire. Nemmeno appellarsi al caso, dice Lemaître, potrebbe escludere un orientamento superiore dello stesso (dunque un “caso” che non è esattamente “caso”!):
«Fisica e astronomia non esauriscono la realtà intera. Chi osservasse una macchina da scrivere in attività, potrebbe scoprire le leggi secondo le quali l’affondo di un certo tasto provoca la battuta di un certo carattere per mezzo dell’impulso dato alla leva che lo porta. Finché l’osservatore si attiene strettamente al punto di vista della fisica della macchina, dovrebbe ammettere che i tasti rientrano senza alcun carattere di necessità fisica, quindi fisicamente a caso. Solo collocandosi in una prospettiva completamente diversa e sostanzialmente superiore potrà inferire, dal funzionamento della macchina, se questa venga azionata da un poeta, da una scimmia o da un folle. La fisica non esclude la Provvidenza» (L’ipotesi dell’atomo primitivo: saggio di cosmogonia, 2019, traduzione mia).
Di Mauro Stenico.
Bibliografia
Arcidiacono, Vincenzo S.J.
1958 Come si evolvono i cieli: II: l’origine dell’universo. Messina: Gaetano Rizzo-Nervo.
Einstein, Albert
1917 Kosmologische Betrachtungen zur allgemeinen Relativitätstheorie. In: Sitzungsberichte der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften. Berlino, pp. 142-152.
Hawking, Stephen W.
2004 La teoria del tutto: origine e destino dell’Universo. Milano: BUR.
Kant, Immanuel
2009 Storia universale della natura e teoria del cielo. Roma: Bulzoni.
Jastrow, Robert
1992 God and the astronomers. New York-Londra: W. W. Norton and Company.
Lemaître, Georges E. H. J.
2019 L’ipotesi dell’atomo primitivo: saggio di cosmogonia. Trento: Fondazione Museo storico del Trentino. Traduzione italiana integrale dal francese e introduzione storica a cura di Mauro Stenico. Titolo originale: Georges E. Lemaître, L’hypothèse de l’atome primitif: essai de cosmogonie. Neuchâtel: Editions du Griffon, 1946.
Oxford,
2003 Oxford dictionary of astronomy. A cura di Ian Ridpath. Oxford-New York: Oxford University Press.
Platone,
2003 Timeo. Milano: Bompiani.
Poe, Edgar A.
2001 Eureka. Milano: Bompiani.
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