La dialettica dell’Universo – Seconda parte

La dialettica

dell’Universo

Seconda parte

Passato e presente

In un certo senso, il passato dell’Universo non è andato completamente perso. Per quanto incredibile possa sembrare, esso interagisce armoniosamente con il presente. In che senso? Gli astronomi spiegano che guardando in profondità nel Cosmo, se ne osserva il passato. Il che è assolutamente coerente: osservando adesso gli oggetti celesti remoti, li si osserva per come erano in passato, quando da essi partì la luce che raggiunge oggi l’occhio dell’osservatore o il suo strumento. In un certo modo, quindi, non vediamo che “fossili cosmici”. A differenza di quanto sosteneva in generale la scienza antica e medievale, la velocità della luce non è infinita o istantanea. Scrive per esempio S. Tommaso d’Aquino (1225-1274):

«L’illuminazione si produce istantaneamente. [Non] si può opporre che essa avviene in una frazione impercettibile di tempo. Perché se il tempo può sfuggirci in un piccolo spazio, non lo può in una grande estensione, per esempio dall’oriente all’occidente. Ora, noi osserviamo che non appena il sole è su un punto dell’orizzonte a oriente, subito si illumina tutto l’emisfero sino al punto opposto» (Somma Teologica, parte I, questione 67, art. 2).

Oggi è invece noto che la velocità della luce è enorme, ma non infinita. La prima misurazione empirica venne eseguita dall’astronomo danese Ole Römer (1644-1710) nel 1676, mediante l’osservazione dei satelliti di Giove, e restituì un valore di 210.800 km\s. In realtà, sappiamo che ammonta a circa 300.000 km/s. In un anno di tempo terrestre, la luce percorre dunque 9.461 miliardi di km. Conseguenza del limite della velocità della luce – e della radiazione elettromagnetica tutta, della quale la luce visibile è solo una porzione – è che, per fare alcuni esempi, vediamo il Sole per come era 8 minuti fa, la Luna 1,28 secondi fa, Giove 35 minuti fa, Saturno 1 ora 11 minuti fa, la galassia di Andromeda 2,5 milioni di anni fa. Volendo, è una rivincita della fantascienza: così interpretata e intesa, la macchina del tempo esiste. E, seppur impercettibilmente, si applica anche alla nostra piccolissima quotidianità:

«La lista delle cose presenti nel mio adesso presenta un aspetto singolare: nulla di quello che vediamo adesso appartiene a tale lista, dato che la luce impiega un certo tempo a raggiungere i nostri occhi. Tutto ciò che vedete adesso è già accaduto (…). Se vi guardate attorno nella stanza, vedete le cose così com’erano circa dieci o venti miliardesimi di secondo fa (…). La lista delle cose presenti nel mio adesso può essere compilata solo dopo che i fatti siano avvenuti» (Brian Green, La trama del cosmo, 2006).

La parte e il tutto

Personalmente, ho sempre trovato incredibile che l’uomo possa spingersi sino a elaborare un modello dell’Universo nel suo complesso. La scienza utilizza il modello per conferire una forma concreta e comprensibile ai suoi concetti. Non è una novità dell’epoca moderna. Già Anassimandro (VII secolo a.C.) ricorse al modello per rappresentare, su tavolette, la terra abitata. Orbene, per concepire un modello dell’Universo globale, occorre ammettere un presupposto essenziale: il principio cosmologico, secondo il quale il Cosmo sarebbe, su grande scala (non localmente!), omogeneo (equivalenza dei punti di osservazione) e isotropo (stesse proprietà ovunque). Per averne prova, occorre osservarlo prendendo a riferimento una regione di almeno 100 Megaparsec (326.000.000 anni luce), grandezza alla quale le galassie sarebbero visualizzabili quasi come le molecole di un gas. Muovendo da questo presupposto – confermato dalle osservazioni e dai dati disponibili, per esempio la radiazione cosmica di fondo – Lemaître si mostrava ottimista: l’Universo rappresentava un enigma alla portata dell’intelletto umano:

«La canna pensante di Pascal domina la roccia che la schiaccia perché la conosce; noi dominiamo il cielo, del quale comprendiamo l’armonia: saremo in grado di comprendere l’universo solo in alcune parti e il nostro spirito dovrà quindi dichiararsi incapace di comprendere l’universo nel suo complesso? Non mi resta altro da dirvi se non che possiamo scartare questa conclusione pessimistica, e concepire una forma intelligibile del complesso del mondo» (La grandezza dello spazio, op. cit., traduzione mia).

Lemaître vuole contrapporsi al “pessimismo” di Blaise Pascal (1623-1662), che vedeva l’uomo come un essere schiacciato fra l’infinitamente grande del macrocosmo e l’infinitamente piccolo del microcosmo – il Seicento fu il secolo del cannocchiale, ma altresì, non dimentichiamolo, del microscopio – e sostiene che elaborare una cosmologia dell’Universo nel suo complesso sia possibile grazie ai dati e a teorie come la relatività generale, che legano la parte e il tutto. E, aggiungo io, tale rapporto fra parte e tutto possiede una duplice valenza:

  1. Gnoseologica, cioè relativa alla conoscenza. Applicando il principio del campione, se la parte (il campione) è una rappresentazione in piccolo del tutto, allora generalizzando le proprietà della parte si possono inferire le proprietà del tutto. Sulla base di questo principio è possibile concepire l’Universo come un complesso unitario per:
    a) Contiguità: tutti i corpi sono in contatto direttamente o indirettamente (per mezzo di campi gravitazionali, elettromagnetici…). Nello spazio non esiste il vuoto assoluto: anche quello che sembra vuoto, è in realtà spazio permeato da particelle che nascono e muoiono in continuazione, in un continuo “ribollire” che compone la cosiddetta schiuma quantistica.
    b) Composizione. L’analisi spettrale di stelle e galassie mostra che i corpi celesti popolanti l’Universo osservabile sono composti dagli stessi elementi presenti sul nostro pianeta. Molti degli atomi (es.:
    carbonio, azoto…) che compongono il nostro corpo provengono dalle stelle, anche di altre galassie, e furono portati qui dai venti galattici scatenati dalle supernovae.
    c) Uniformità: le stesse leggi che governano una piccola porzione d’Universo, per esempio la gravità, si applicano anche al Cosmo in grande.
  2. Ontologica, ossia riguardante l’essere, l’esistenza stessa del Cosmo: affinché l’Universo a noi noto esista, devono esistere costanti fisiche dotate di valori precisi (unità di carica elettrica del protone, massa di certe particelle fondamentali, costante di gravitazione eccetera). Il tutto si regge sulla parte, la costante, e la parte permea il tutto, rendendosi, con ciò stesso, universale.

Proprio l’esistenza di leggi fisiche universali permette la dialettica tra finito (parte) e “infinito” (il tutto): in qualsiasi regione dell’Universo – anche nella galassia più lontana – per fare un esempio, l’acqua è sempre data da H 2 O; in caso contrario, non è acqua. Questa è l’essenza dell’ordine, che è unità nella pluralità, accordo fra le parti e il tutto. Per questo motivo, fra l’altro, se astrattamente la materia di una sostanza può essere divisa all’infinito, poiché finché vi è estensione, vi è in linea di principio divisibilità, ciò non può valere dal punto di vista dell’ente specifico: ogni sostanza corporea ha infatti un minimum naturale al di sotto del quale quella specifica natura si perde. Torniamo all’acqua: H 2 O è una molecola composta da 2atomi di idrogeno e 1 di ossigeno: scindendola, vi sono soltanto idrogeno e ossigeno separati, ma non acqua.

Sulla base della relazione fra la parte e il tutto, alcuni scienziati e filosofi ritengono persino che ogni alterazione che si produce in un punto determinato del Mondo, si ripercuote sul tutto (effetto farfalla). Di certo, ogni corpo è in continuo scambio con l’ambiente. Secoli fa si diceva che natura horret vacuum (absolutum). Vorrei spiegare perché questo principio abbia valore: il vuoto fra due corpi non è assoluto, come spiega la fisica moderna. Poiché un’azione a distanza per mezzo del vuoto assoluto ripugna, essendo il vuoto assoluto l’assenza totale di ogni soggetto; e poiché l’azione è generata da una forza e una forza è un accidente che richiede un soggetto di riferimento, ma il vuoto assoluto esclude ogni soggetto; ne consegue che è grazie ai campi di forza (gravità, elettromagnetismo…) che si genera una trasmissione mediata: l’azione si trasmette, di punto in punto e con continuità, tramite un mezzo.

L’Universo è, usando termini filosofici scolastici, un coordinato unum per accidens, ossia non una sostanza unica in senso spinoziano, bensì un complesso di sostanze distinte e individuali. Concludendo il presente paragrafo, diremo che una combinazione fortuita di costanti, leggi, particelle dotate di cariche casuali difficilmente potrebbe originare un sistema tanto complesso e funzionante come l’Universo. E se dalla cosmologia ci si spostasse sul versante della biologia (struttura della cellula…), si avrebbe la stessa conclusione. L’uomo, essere razionale, è causa di azioni e opere che compie in vista di un determinato fine, del quale egli è peraltro consapevole; piante e animali agiscono anch’essi in vista di un fine, pur non essendone consapevoli. Al di là della consapevolezza e dell’autocoscienza, la Natura è regolata secondo principi stabili e uniformi, che talvolta non si esita ad attribuire al “caso”. Eppure il “caso” non ha memoria, vale a dire che difficilmente potrebbe compiere le stesse cose sempre alla stessa maniera e nel miglior modo possibile per l’ordine complessivo. Nel De natura deorum Cicerone (106 a.C.-43 d.C.) scrive, non senza sarcasmo finale:

«Basta alzare lo sguardo al cielo per convincersi che non può essere opera del caso. Se uno entra in una casa, in un ginnasio, o nel foro, vedendo l’ordine di tutte le cose, la sollecitudine, la disciplina che vi regna, non può neppur pensare che ciò avvenga senza causa e che non vi sia alcuno che comanda. A più forte ragione chi guarda l’universo (…) deve necessariamente ritenere che vi è una mente che tutti quei moti governa (…). Se entri in un palazzo grande e bello e non vedi chi l’ha edificato, puoi tu forse indurti a credere che l’han costruito i topi e le faine?».

Naturalmente – si badi bene – il “caso” non è escluso completamente dalla vita dell’Universo. Sarebbe ingenuo sostenerlo. Il problema è che occorre intenderne il senso: il caso è l’interazione fra due fatti o eventi che non sono previsti né voluti, ma che si presentano come se fossero stati così previsti e voluti. Comunque, il caso è pur sempre qualcosa di parziale: vale a dire che qualcosa può avvenire a caso a patto che vi sia qualcos’altro che non avviene a caso. Un esempio dalla filosofia antica: se due servi vengono mandati dal padrone in una stessa località, ma l’uno all’insaputa dell’altro, è possibile che essi si incontrino senza aspettarselo; ma in questa eventualità, i due servi si sarebbero incontrati perché il padrone li ha inviati in quella località. Vi è, quindi, una scelta intelligente alla base.

Generazione e corruzione

Oggi diamo per scontato che i corpi che popolano l’Universo siano corruttibili: alcuni tipi di stelle, fra vita principale e fase finale, possono anche vivere – si stima – centinaia di miliardi di anni, ma alla fine moriranno. Nella cosmologia aristotelica ciò sarebbe stato impensabile. La scoperta e l’accettazione che anche le stelle avessero una “vita” non rappresentò affatto, a suo tempo, una banalità. Figurarsi la cosmologia novecentesca, secondo la quale persino l’Universo intero avrebbe una vita!

Nonostante siano passati secoli, gli Scolastici fornirono un principio-guida per le dinamiche astronomiche valido ancora oggi: corruptio unius generatio alterius: dalla corruzione di qualche ente può scaturire la formazione di altri enti. L’esempio della formazione degli elementi chimici necessari anche al nostro corpo da parte delle supernovae è già stato presentato in precedenza. Lo stesso corpo di piante, animali e persone, corrompendosi, restituisce elementi alla terra. Eppure, la validità del principio corruptio unius generatio alterius non è assoluta: mentre genera calore e sprigiona luce, per esempio, il Sole perde massa (E = mc 2 ), ma il calore disperso non può più essere riutilizzato. Proprio sulla base di conoscenze come questa si è giunti a capire come l’Universo stesso sa destinato – pare – ad avere una fine: la morte termica.

Nel 1850 il fisico tedesco Rudolf J. E. Clausius (1822-1888) dimostrò che in un sistema finito e chiuso l’energia disponibile per compiere lavoro tende a esaurirsi in ragione della trasformazione, a senso unico, del lavoro in calore. La tendenza alla degradazione energetica fu denominata entropia, dal greco en (“dentro”) e tropé (“trasformazione”). Esiste dunque un ordine preciso nelle conversioni di energia che avvengono nel Mondo. Semplificando al massimo: l’energia non può trasformarsi con libertà totale, ma tende a convertirsi nella forma più disordinata e degradata, oltreché non più riutilizzabile: il calore, appunto. L’entropia pone un problema centrale per la vita del Cosmo, qualora la si voglia considerare eterna. Se consideriamo il Cosmo come un sistema finito e chiuso, cioè impossibilitato a ricevere energia dall’esterno; e se si applicano i principi della termodinamica all’Universo nel suo insieme, ecco la conseguenza: pur mantenendosi costante l’energia totale dell’Universo (I° principio), essa procede verso uno stato di degradazione massima (II° principio, entropia): verrà quindi il momento, fra triliardi di anni – che, pur essendo un’enormità non sono comunque un’eternità – in cui non vi sarà più energia per compiere nuovo lavoro (ergo per accendere nuove stelle) e si raggiungerà l’equilibrio termodinamico globale (zero assoluto): proprio la morte termica del Mondo. Già adesso, quindi, l’energia utile a compiere nuovo lavoro nel Cosmo è in costante diminuzione. Vivere è un po’ morire: anche per noi, ogni istante che passa, è un istante in meno da vivere. Se l’ipotesi della morte termica fosse fondata, la fine dell’Universo non avverrà nel calore – come ritenevano alcune cosmogonie antiche – ma nel freddo, nella desolazione, nel buio, allorché gli ultimi astri si saranno spenti. Chiaramente, giocoforza che se l’Universo dispone di una riserva non illimitata di energie, esso non può esistere dall’eternità. Poiché non vogliamo e non possiamo essere dogmatici nel campo della cosmologia fisica, diremo che è comunque vero che la fisica non conosce tutti i segreti della materia e dell’Universo, e non è dunque da escludersi totalmente che le proprietà della materia non possano teoricamente nascondere qualche dinamica capace di porre freno al degradamento assoluto. Ciò è e rimane però puramente ipotetico.

Ritengo che il significato di quanto finora affermato sia principalmente uno: la contingenza dell’Universo, ossia il fatto che, come detto all’inizio dell’articolo, la costituzione attuale dell’Universo non sia eterna. Per come sono impostate le leggi del Cosmo, la direzione della freccia del tempo scorre in un solo senso. Anche questo non è scontato, dato che nelle società pagane antiche si riteneva, spesso, che il tempo non fosse lineare, ma ciclico. L’eterno ritorno del tutto è una concezione presente per esempio negli Stoici, per molti dei quali il Cosmo ebbe origine dal fuoco e ritornerà nel fuoco (conflagrazione universale). Ridivenuto fuoco puro, diffuso in tutto lo spazio infinito, avverrà una palingenesi, cioè una rinascita del Cosmo, con esattamente le stesse sembianze, le stesse persone e la stessa storia con tutti i medesimi dettagli (eterno ritorno). Scrive l’imperatore e filosofo stoico Marco Aurelio (121-180) nei Colloqui:

«Tutte le cose fin dall’eternità sono uguali e procedono dalla stessa maniera come se fossero chiuse in un cerchio, e perciò colui che le mirasse per cento o duecento anni o per l’eternità non scorgerebbe nessuna differenza».

Lo stesso si trova in autori moderni come Friedrich Nietzsche (1844-1900):

«Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!» (Gaia scienza).

Nel XX secolo non sono mancati cosmologi sostenitori del modello di Universo “pulsante”, caratterizzato da alternanza eterna di cicli di espansione e contrazione. Uno dei suoi propositori fu, per esempio, William B. Bonnor (1920-2015). Tali proposte, tuttavia, hanno esercitato un ruolo minore nella cosmologia moderna.

Attrazione e repulsione, noto e ignoto

Si tratta di una delle chiavi dialettiche più affascinanti e note fin dall’antichità. Soffermiamoci, per un momento, sul pensiero di Empedocle di Agrigento (V sec. a.C.). Egli fu il primo a introdurre l’idea per la quale i fenomeni naturali dipendono da forze universali; di conseguenza, la materia (i quattro elementi tradizionali o radici dell’essere, usando i termini di Empedocle) è separata dalle forze che la governano (cfr. Samuel Sambursky, Il mondo fisico dei greci, 1959). Due le forze universali che regolano la vita del Cosmo: Amore, che tende a riunire tutti gli elementi, e Odio, che tende a separarli tutti. La loro dialettica determina cicli cosmici eterni: quando predomina Amore, tutto viene dissolto in un’unità indifferenziata detta Sfero, ma con il subentrare di Odio si insinua gradualmente la disgregazione, fino al caos massimo, e così via da capo. L’Universo noto esiste solo nel momentaneo equilibrio fra le due forze. Il passaggio ciclico da un Universo di Amore puro a uno di Odio puro rappresenta, dialetticamente, il respiro cosmico.

Nella cosmologia moderna l’attrazione coincide con la gravità. A differenza delle altre forze fondamentali, solo la gravità agisce a scala cosmologica, mentre le altre su scale assai inferiori. Eppure, a livello macrocosmico, la gravità è contrastata da una forza repulsiva che prende l’inquietante (e cinematografico?) nome di energia oscura (dark energy), forma misteriosa di energia del vuoto che eserciterebbe una pressione negativa, agendo in senso contrario alla gravità. Secondo le stime contemporanee, la materia ordinaria (stelle, galassie, pianeti, persone, gas interstellare…) rappresenterebbe il 5% della massa cosmica totale. Il 95% sarebbe ripartito fra materia oscura (26-27%) ed energia oscura (68-69%). La materia oscura (dark matter) ha natura ignota e non interagisce con la materia ordinaria, salvo che per effetti di gravità. È noto che le galassie ruotino: una rotazione molto complessa, non rigida. Se vi fosse soltanto la materia (barionica) ordinaria, visibile attraverso la sua “luminosità”, la rotazione di una galassia a spirale dovrebbe decrescere man mano che dal centro ci si allontana verso l’esterno, ove la “luminosità” è molto inferiore. Al contrario, è stato invece verificato che la curva di rotazione rimane costante; il problema si risolve considerando la massa in più appartenente alla materia non barionica. Inoltre, questa massa aggiuntiva è fondamentale per spiegare perché le galassie non si smembrino per via della forza centrifuga generata dalla loro rotazione: la sola materia ordinaria visibile non risulta infatti sufficiente per mantenerle integre. In altre parole, nel corso della rotazione le parti esterne dovrebbero disgregarsi e finire nello spazio siderale. Quanto all’energia oscura, essa è indispensabile per spiegare il fatto che, come si scoprì negli anni Novanta dell’ormai scorso millennio, l’espansione del Cosmo stia accelerando. Per il momento, i dati sembrerebbero confermare proprio il trionfo dell’energia oscura sulla materia, ordinaria e non, con la conseguenza per la quale l’espansione sarebbe destinata a essere irreversibile. In altri termini, non dovrebbe avvenire alcuna grande contrazione o collasso cosmico finale (Big crunch).

Ma che cosa sono, esattamente, la dark matter e la dark energy? Ebbene, non si sa! Questo significa che non si conosce la natura del 95% della composizione cosmica, che può a suo modo richiamare una sesta chiave dialettica cosmologica: quella fra noto e ignoto. La materia oscura dominò le prime fasi di vita dell’Universo, ma fu poi vinta dall’energia oscura: la densità della materia oscura diminuì per diluizione dovuta all’espansione, mentre la densità dell’energia oscura rimase costante. Il Prof. Cristiano Galbiati descrive in maniera quasi mitologica lo scontro tra gravità e repulsione, certo non senza fascino:

«Due entità in lotta, dall’inizio dei tempi, per conseguire il dominio assoluto. Un conflitto senza tregua (…). Una guerra serrata, dall’esito tutt’altro che scontato, che attraversa i confini del tempo e dello spazio: repentini i rovesciamenti del fronte, e inaspettati. Questa lotta sta avendo luogo proprio intorno a noi, in questo preciso momento. Ha determinato tutto ciò che siamo oggi, e finirà per fissare il destino ultimo dell’Universo (…). Solo negli ultimi vent’anni abbiamo capito che sin dall’inizio dei tempi, marcato dall’evento singolare del Big Bang, l’evoluzione dell’Universo è stata interamente dominata dalla battaglia feroce tra queste due entità sconosciute. Esse sono in una posizione dominante nel mondo fisico, perché rappresentano circa il 95% dell’energia dell’Universo. Eppure si sono tenute “nascoste” sino a ieri. Questo è stato possibile perché non sono dotate di carica elettrica e non interagiscono direttamente con i campi elettromagnetici: non emettono né assorbono né riflettono luce. Sono due entità oscure. Misteriose e ignote come divinità ctonie (…). Completamente ininfluente all’inizio dei tempi, a seguito della continua espansione dell’Universo [l’energia oscura] ha finito per assumere un ruolo viepiù importante. Se infatti la materia oscura era dominante agli albori dell’Universo (quasi ininfluente invece il ruolo della materia normale, di cui siamo fatti noi e le stelle), la sua densità di energia è calata rapidamente a seguito della diluizione dovuta all’espansione dell’Universo. Non così per l’energia oscura: la sua densità rimane costante per unità di spaziotempo. Qualche miliardo di anni fa l’energia oscura ha preso il sopravvento, portandoci in una nuova èra, caratterizzata da una forte accelerazione dell’espansione dell’Universo, ormai non più controbilanciata dalla forza di attrazione della materia oscura» (Cristiano Galbiati, La guerra del cosmo: materia oscura contro energia oscura, 2018).

Nella terza e ultima parte dell’articolo, entreremo in maggior dettaglio sulla dialettica fra uno e molteplice che caratterizza il rapporto fra singolarità cosmologica e pluralità dei corpi che popolano l’Universo.

Di Mauro Stenico.

Bibliografia

GREEN, Brian
2006 La trama del Cosmo. Einaudi: Torino.

LEMAÎTRE, Georges E. H. J.
1929 La grandeur de l’espace. In: Revue des questions scientifiques, v. 93, pp. 186-216.

CICERONE,
2004 Sulla natura degli dèi. Cles (TN): Mondadori.

MARCO AURELIO,
2021 Colloqui con se stesso. Firenze: Giunti-Barbera.

NIETZSCHE, Friedrich W.
2008 La gaia scienza. Roma: Newton Compton.

GALBIATI, Cristiano
2018 La guerra del cosmo: materia oscura contro energia oscura. In: Corriere della Sera: la lettura. Milano, 9 settembre, pp. 12-13.

Immagine: ESO/L. Calçada, CC BY 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by/4.0, via Wikimedia Commons

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