Paleogenomica, patogeni ed evoluzione
Il quotidiano francese Le Figaro del 17 gennaio riporta, dandovi molto risalto, una ricerca pubblicata sul periodico specialistico Cell Genomics in cui sono studiati gli effetti che la selezione naturale ha sulla resistenza alle malattie, ma anche sull’aumento di rischio per altre malattie, per esempio di tipo infiammatorio, dall’Età del bronzo a noi.
È la disciplina chiamata paleogenomica a dare impulso a queste ricerche, analizzando il DNA dei nostri predecessori fossili con l’auspicio che la comprensione delle malattie del passato aiuti a capire quelle del presente e del futuro. Il Premio Nobel assegnato al biologo e genetista svedese Svante Pääbo, tra i fondatori della paleogenetica, va esattamente in questa direzione.
Lo studio di Cell Genomics, condotto dal team di Genetica evolutiva umana dell’Institut Pasteur di Parigi, studia 2800 individui, tutti europei, vissuti nel Vecchio Continente lungo gli ultimi 4500 anni. Cosa ne emerge? Che si siano verificate mutazioni sia positive sia negative. Quelle positive permettevano la sopravvivenza alle persone entrate in contatto con agenti patogeni, quelle negative aumentavano il rischio di contrarre altre malattie. Ovviamente le mutazioni positive aumentavano di frequenza con il trascorrere dei millenni, giacché i loro portatori raggiungevano più facilmente l’età riproduttiva, mentre quelle negative si seguivano l’andamento inverso.
«In conclusione, questo studio mostra come la selezione naturale abbia preso di mira i geni di difesa dell’ospite nei dieci millenni della storia europea, in particolare dall’inizio dell’Età del bronzo e come essa abbia probabilmente contribuito a evidenziare le disparità esistenti oggi nei livelli di rischio di contrarre malattie infettive e infiammatorie».
A proposito delle mutazioni “positive” è interessante quello che suggerisce Michael Behe, professore di biochimica alla Lehigh University della Pennsylvania, Stati Uniti e uno dei principali teorici dell’ Intelligent Design. Utilizzando risultanze empiriche derivate dalle decadi di studi e ricerche sulla malaria, Behe evidenzia come la comparsa della resistenza del famigerato Plasmodium falciparum, il protozoo responsabile della malaria, alla clorochina, uno dei farmaci più efficaci contro il parassita, avviene nel suo codice genetico all’incirca ogni 1020 organismi.
Questo è numero enorme, un dieci seguito da 20 zeri e rappresenta una cifra maggiore di tutti i mammiferi mai esistiti sul nostro pianeta! Dal punto di vista molecolare questa “evoluzione” è però banale: parliamo infatti di due sole mutazioni in una proteina del protozoo (PfCRT), dove però solo la seconda conferisce al parassita la capacità di espellere la molecola dell’antibiotico in modo che non lo uccida. Che dire quando un innovazione biologica richiede più di due mutazioni, con quelle intermedie neutrali (come in questo caso) o addirittura svantaggiose e quindi dannose?
Quindi questa statistica, confermata prima da Nicholas White, e poi corroborata successivamente da Summers e altri, fa ben capire come una semplice modifica di una proteina richieda quantità di tempo e di organismi enorme, chiarendo che le centinaia se non migliaia o più di mutazioni richieste dalla macroevoluzione siano possibili solo negli speculativi e semplicistici modelli teorici del neodarwinismo ma non nei reali riscontri empirici.
Fa riflettere anche l’uso dei termini «evoluzione» e «selezione». Se si considera infatti l’esperienza maturata con la pandemia CoViD-19, si vede come la risposta al virus SARS-CoV-2 sia stata molto diversificata e legata a fattori diversi, tra i quali vi è l’immunità innata che riesce a tamponare eventuali infezioni. Uno studio di Nature Immunology chiarisce i meccanismi di codesta immunità, che peraltro non è la sola esistente. Vi è infatti poi quella legata al contatto con l’agente infettivo o quella stimolata dall’esterno, per esempio attraverso i vaccini. Chi sopravvive ha, nel proprio patrimonio genetico, che si trasmette poi alla prole, caratteristiche che portano a una immunità che a quel punto, nella nuova persona (la prole), è innata o ha una particolare risposta contro le infezioni.
Del resto, l’uomo trasmette alla prole la propria immunità solo attraverso un patrimonio genetico più o meno adatto a combattere le malattie.
Nell’Età del bronzo funzionava nella stessa maniera. «Questo periodo», scrive il team di Genetica evolutiva umana dell’Institut Pasteur, «corrisponde al tempo dell’ultima grande ondata migratoria che porta le popolazioni delle steppe dell’Asia centrale nel continente europeo, cui 40mila anni fa è seguito l’arrivo dei primi cacciatori-raccoglitori e poi l’ondata dei primi agricoltori in Anatolia circa 10mila anni fa».
Un po’, cioè, come accadde nell’America Meridionale quando arrivarono gli europei portando malattie “nuove”. Molti aborigeni morirono e sopravvisse chi mostrava le caratteristiche descritte sopra. Tra qualche anno un paleogenetista trarrà le stesse conclusioni. L’unica evoluzione qui attestata è la cosiddetta «microevoluzione», ovvero lo sviluppo di certe caratteristiche già intrinseche al patrimonio genetico dato. Nessun salto, nessuna grande trasformazione, nessuna acquisizione di caratteri prima inesistenti, nessuna nuova informazione che consenta l’innovazione biologica, quella così indispensabile alla teoria neodarwinista per l’ottenimento di macroevoluzione.
Come sempre, i casi presentati sono casi di sviluppo interno, di passaggio da potenza ad atto, di “maturazione”, anche grazie a stimoli esterni, di peculiarità innate.
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Di Andrea Bartelloni (con contributi e collaborazioni di C. A. Cossano e M. Respinti).
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