Può il materialismo spiegare la coscienza umana? – Parte seconda

Autore del contributo, proposto dal Dott. Mauro Stenico in traduzione italiana dall’originale inglese, è il Prof. Michael Egnor, docente di neurochirurgia pediatrica e convinto sostenitore della teoria dell’Intelligent Design. Egnor è attivo presso la State University of New York, a Stony Brook. Il contributo Can materialism explain human consciousness? (Può il materialismo spiegare la coscienza umana?) si trova nel volume William A. Dembsky, Casey Luskin e Joseph M. Holden, The comprehensive guide to science and faith (La guida completa a scienza e fede) Harvest House Publishers (Eugene-Oregon), 2021, alle pp. 211-223. Vale la pena evidenziare come Egnor sia sostenitore della concezione dualistica – segnatamente di carattere tomistico – del rapporto fra cervello e mente. La mente, in sintesi, non è concepita quale prodotto di un organo fisico (il cervello), ma è un’entità che trascende il corpo. Essa rappresenta dunque, per così dire, un’eccedenza rispetto all’organo cerebrale. Per argomentare a favore di questa posizione, Egnor presenta e analizza osservazioni empiriche (esperimenti) compiute nel corso del XX secolo.
Qua e là ho sono state aggiunte alcune note esplicative a titolo di chiarimento per il lettore e sempre inserendole fra parentesi quadre e in corsivo. L’evidenziazione in grassetto è sempre di Stenico.
― ◊ ―
1. Dualismo e materialismo nella neuroscienza moderna
Si potrebbe pensare che i problemi logici mostrati dal materialismo potessero preservare la neuroscienza del XXI secolo dalla relativa influenza materialistica, ma così non è. La maggior parte dei neuroscienziati contemporanei opera secondo una prospettiva implicitamente materialistica. In parte, perché essi non ragionano sulle gravi problematiche implicate; in parte, perché il materialismo è il correlato metafisico dello scientismo ateo che infesta la scienza moderna; in parte ancora, perché la pubblica ammissione di possedere una prospettiva dualistica è percepita – correttamente, commenta Egnor – come un impedimento a una carriera in ambito neuroscientifico. Egnor afferma come poco tempo prima di redigere il contributo un suo amico – un neuroscienziato di ruolo e affermato, e peraltro un cristiano devoto – gli avesse privatamente confidato che se mai avesse pubblicamente messo in questione il materialismo, egli non avrebbe più ottenuto alcun assegno di ricerca. Il materialismo è l’impalcatura della neuroscienza moderna per ragioni ideologiche, non logiche né scientifiche. Nella neuroscienza il materialismo è qualcosa di presupposto, non qualcosa di dimostrato. La ragione principale di tale presupposto, a dispetto della logica e dell’evidenza, è che è difficile [si suppone] testare le teorie materialistiche o dualistiche con rigore non ambiguo. Come possiamo sapere, sperimentalmente, se un pensiero sia qualcosa di materiale o di immateriale? Come puoi testare empiricamente tale quesito ‘metafisico’? Eppure, tutto ciò può essere testato, e lo è stato.
Orbene, esistono due tipologie di inferenza (escludendo il ragionamento abduttivo o ‘abduzione’): deduttiva e induttiva. La scienza naturale nel suo complesso è induttiva, perché, come osservò S. Tommaso d’Aquino nel XIII secolo, la deduzione non può provare l’esistenza di qualcosa, dato che l’essenza (la struttura formale di un argomento deduttivo) è assolutamente distinta dall’esistenza [in effetti, il fatto di poter concepire qualcosa nel pensiero non implica che quel qualcosa esista di fatto. Nel mio pensiero, per esempio, posso combinare idee di animali diversi e concepire l’idea o essenza di un unicorno, ma ciò non garantisce né prova affatto che esso esista realmente]. Non possiamo dedurre la neuroscienza. Noi accumuliamo invece prove, applichiamo schemi esplicativi e verifichiamo quale inferenza meglio si adatti alle prove anzidette e alla logica. La neuroscienza, come tutta la scienza, è induttiva: è un’inferenza alla miglior spiegazione tratta dalle evidenze.
Per poter verificare materialismo e dualismo, abbiamo innanzitutto bisogno di definirli. Ecco le definizioni operative che utilizza Egnor:
- Il materialismo implica l’inferenza per la quale il cervello provochi ‘tutti’ gli aspetti della mente, senza che permanga alcun eccedente (remainder).
- Il dualismo implica l’inferenza per la quale il cervello provochi ‘alcuni’ aspetti della mente, e che permanga un qualcosa di eccedente.
Entrambe le posizioni concordano sul fatto che il cervello provochi (causi) almeno alcuni aspetti della mente. Ma l’affermazione materialistica è dunque radicale: il cervello causa ‘tutti’ gli aspetti della mente e non vi sono pensieri immateriali. L’affermazione dualistica è meno radicale: esistono aspetti della mente non causati dal cervello. Le affermazioni fondamentali di entrambe le posizioni possono essere verificate con un certo rigore, come si vedrà.
Dunque, le teorie materialistiche e dualistiche della mente si distinguono quanto all’eccedenza immateriale (immaterial remainder). Cioè differiscono sul fatto se tutti gli stati mentali siano provocati ‘interamente’ da stati cerebrali, o se esistano stati mentali non causati dal cervello (e che allora sarebbero immateriali). La prova di riferimento, ovviamente, è incompleta: vi sono innumerevoli stati mentali che non risultano correlati con stati del cervello per il semplice fatto che non si è intrapreso alcuno sforzo per studiarli, o (forse) perché i metodi scientifici utilizzati per studiarli non sono stati sufficientemente sensibili. Orbene, tenendo conto di queste premesse, possiamo operare inferenze ragionevoli sul materialismo e sul dualismo sulla base dei seguenti concetti essenziali:
- se tutti gli stati mentali sono causati da stati cerebrali, allora: ogni stato mentale può essere evocato stimolando il cervello in qualche modo; ogni stato mentale può essere soppresso asportando (cioè danneggiando) il cervello in qualche modo; infine, ogni stato mentale può essere collegato in qualche modo a un determinato stato cerebrale;
- se invece qualche stato mentale ‘non’ è causato da stati cerebrali, allora proprio questi stati mentali si sottrarranno all’evocazione, all’ablazione e alla correlazione.
2. Le prove della neuroscienza a confronto con il materialismo e il dualismo
La maggior parte degli esperimenti essenziali nelle neuroscienze riguardanti il rapporto mente-corpo possono essere suddivisi in:
- evocativi: stimolano il cervello;
- ablativi (asportativi): tacitano il cervello;
- correlativi: paragonano gli stati cerebrali a stati mentali.
2a. Esperimenti evocativi
Wilder Penfield: convulsioni intellettive e libero arbitrio
Lo scienziato canadese Wilder G. Penfield (1891-1976) fu un neurochirurgo e un neuroscienziato di prim’ordine operante a metà del XX secolo, pioniere nel trattamento chirurgico dell’epilessia mediante la stimolazione e la registrazione [di dati] dalla superficie del cervello in pazienti coscienti sottoposti a chirurgia cerebrale. Compiere il tutto fu possibile perché il cervello non sperimenta dolore e lo scalpo può essere anestetizzato con particolari prodotti in modo da rendere indolore la chirurgia. Questo tipo di chirurgia è utilizzato ancora oggi. Penfield era particolarmente interessato alla relazione fra cervello e mente. Iniziò la sua carriera come materialista e la concluse come un ardente dualista. Penfield basò il suo dualismo su alcune osservazioni:
- ‘Non esistono convulsioni intellettive’. Le convulsioni sono scariche elettriche sporadiche provenienti dal cervello e che causano una molteplicità di sintomi: dalla perdita totale della coscienza alla contorsione profonda di gruppi muscolari, sensazioni sulla pelle, flash luminosi o rumori, odori e anche ricordi o stati emotivi intensi. Penfield documentava queste scariche elettriche dalla superficie del cervello. Notò, appunto, come non si verificassero convulsioni intellettive. Ossia che non si è mai avuta, nella storia della medicina, una convulsione che possedesse un contenuto intellettivo specifico o un pensiero astratto. Non esistono convulsioni matematiche, logiche, filosofiche, o riferentisi a Shakespeare. Se il cervello è la sorgente delle funzioni intellettive superiori, come viene ampiamente ritenuto, perché nella storia della medicina non vi è ‘mai’ stata una convulsione che abbia evocato un pensiero astratto? Ciò interessò molto Penfield, il quale ne concluse, ragionevolmente, che il motivo per cui non esistevano convulsioni intellettuali fosse perché il pensiero astratto non si origina nel cervello.
- ‘Il libero arbitrio non può essere stimolato stimolando il cervello’. Una parte della ricerca di Penfield consisteva nello stimolare le aree motorie del cervello, cosa che provocava movimenti negli arti dei pazienti durante l’operazione chirurgica. Fu il primo chirurgo a mappare le aree motorie del cervello in questo modo. Nel farlo, notava che i pazienti sapevano sempre la differenza fra movimenti stimolati e movimenti invece che essi stessi, i pazienti, provocavano liberamente. Penfield chiedeva ai pazienti di muovere volontariamente i loro arti quando volevano, ed egli avrebbe – senza dirlo loro – stimolato i loro arti al movimento. Come anticipato, i pazienti sapevano sempre la differenza fra movimenti liberamente decisi e movimenti provocati dal chirurgo. Penfield non trovò mai alcuna regione del cervello che stimolasse il libero arbitrio. Ne concluse che il libero arbitrio non si trova nel cervello, ma che esso sia invece una facoltà immateriale della mente.
2b. Esperimenti ablativi (asportativi)
Roger Sperry e gli esperimenti di divisione del cervello (callosotomia)
Roger W. Sperry (1913-1994) era un neurofisiologo statunitense e Premio Nobel che operò durante la metà del XX secolo. Studiò pazienti che erano stati sottoposti a un’operazione drastica per il trattamento dell’epilessia. Nella callosotomia il neurochirurgo taglia l’ampio gruppo di fibre nervose che collega i due emisferi del cervello per impedire la propagazione delle convulsioni attraverso il cervello. Ciò riduce la gravità delle convulsioni in alcuni pazienti epilettici.
Sperry condusse una meticolosa ricerca sulle persone sottoposte a questo intervento chirurgico radicale e constatò che anche dopo la separazione degli emisferi cerebrali – cosa che lasciava il cervello più o meno diviso a metà – ‘tutti i pazienti risultavano normali per tutti gli scopi ordinari’. Per la sua ricerca, che valse il Nobel, constatò che vi erano tenui anomalie percettive delle quali i pazienti non erano consapevoli e che rivelavano diverse funzioni della metà destra e della metà sinistra del cervello. La facoltà del discorso risultava di norma legata all’emisfero sinistro, mentre il ragionamento spaziale e l’orientamento erano di norma legati al destro. Gli esperimenti di Sperry, dettagliati ed eleganti, svelavano disabilità percettive che non erano evidenti nella vita quotidiana. La cosa più notevole delle ricerche di Sperry era quanto poco le menti dei pazienti fossero state modificate dal drastico intervento chirurgico: le persone il cui cervello era stato scisso a metà rimanevano completamente normali nella vita quotidiana. In particolare, rimanevano una stessa unica persona, senza alcuna scissione della coscienza o della personalità. La scissione che Sperry individuò implicava disabilità percettive che erano di interesse [di studio], ma delle quali i pazienti erano totalmente ignari.
La più importante inferenza che si possa trarre dalla ricerca di Sperry è che il senso di unità della personalità e la capacità di pensiero astratto risultano completamente impregiudicati dopo la scissione cerebrale a metà. Sperry rigettò il materialismo riduzionistico e, nel corso della sua carriera, passò dal materialismo comportamentistico al mentalismo antimeccanicistico e non riduzionistico.
Adrian Owen e lo stato vegetativo permanente
Il numero di Science del settembre 2006 ospitò un articolo a cura del neuroscienziato inglese Adrian M. Owen (1966-) e dei suoi colleghi alla Cambridge University: Detecting awareness in the vegetative state (Rilevare la coscienza nello stato vegetativo). Owen si concentrò sul caso di una donna dichiarata in stato vegetativo permanente, condizione caratterizzata da un grave danno cerebrale e da una completa e di norma definitiva assenza di coscienza e consapevolezza di qualsiasi tipo. Si ritiene che nelle persone in questa condizione non si verifichi alcun processo mentale interiore: si tratta, insomma, del livello più profondo in assoluto di coma. L’esperimento di Owen prevedeva un imaging a risonanza magnetica funzionale (MRI: Magnetic Resonance Imaging) del cervello della donna. Tale tecnica misura, nelle regioni cerebrali, il flusso sanguigno che sembra correlato all’attività del cervello. Quando la donna fu introdotta nella macchina per l’MRI, le fu detto: «Immagina di giocare a tennis», e anche: «Immagina di camminare lungo la stanza». Sorprendentemente, l’MRI funzionale mostrò che la donna stava comprendendo, ed era in grado di collaborare mentalmente alle richieste.
Owen confrontò l’MRI funzionale della donna con quello di alcuni volontari in condizioni normali, e non trovò differenze. Ripeté l’esperimento, ma stavolta presentò alla donna le stesse parole delle richieste precedenti, ma combinandole in modo diverso, cosicché non avessero alcun senso: il cervello della donna non mostrò risposta. Owen concluse che, nonostante il grave danno cerebrale e il trovarsi in un coma dichiarato tanto profondo da non avere alcuna mente [attività mentale], la donna era in realtà in grado di pensare astrattamente, di comprendere e rispondere a richieste dettagliate. Dai tempi dell’esperimento originario di Owen, grazie all’MRI funzionale si è mostrato come molti pazienti in stato vegetativo permanente fossero capaci di pensiero astratto complesso.
Tutto questo rivela una separazione piuttosto marcata tra un danno cerebrale molto grave e i livelli superiori del pensiero astratto. L’interpretazione più parsimoniosa di questa ricerca è che la capacità di questi pazienti di avere pensiero astratto sia in qualche grado ‘indipendente’ dal funzionamento del cervello.
Le esperienze di pre-morte
Nei tempi moderni, alcune persone che hanno sofferto un arresto cardiaco sono state “resuscitate” e hanno riportato esperienze relative al periodo in cui il loro cuore aveva smesso di funzionare. Sono esperienze sorprendentemente comuni, e si è ormai formata una letteratura medica crescente di studi scientifici sulle cosiddette NDEs (Near Death Experiences).
Un esempio famoso è quello di Pam Reynolds Lowery (1956-2010), cantautrice statunitense che, nel 1991, fu sottoposta a un’operazione chirurgica pesante per un aneurisma cerebrale. Il suo corpo fu raffreddato e il suo cuore deliberatamente fermato in modo che il chirurgo potesse riparare il pericoloso aneurisma alla base del cervello. La donna fu clinicamente morta per 30 minuti e fu documentato, mediante un elettroencefalogramma, come ella non mostrasse onde cerebrali. Reynolds [una volta risvegliata] raccontò che quando il suo cuore era stato fermato, sentì come un suono canticchiato, lasciò il suo corpo, fluttuò verso il soffitto della sala operatoria e visionò la sua stessa operazione. Raccontò che i suoi sensi erano notevolmente affinati e, dopo l’operazione, riportò i dettagli dell’intervento, incluse le caratteristiche specifiche degli strumenti utilizzati e le conversazioni avvenute fra i chirurghi mentre era clinicamente morta. Poi la donna vide una luce bellissima, si sentì attratta verso di essa e vide parenti defunti – inclusi suo zio e sua nonna – darle il benvenuto in un luogo bellissimo e di pace. Le fu in seguito detto che sarebbe dovuta tornare al suo corpo, e lo fece con riluttanza. Descrisse il suo ritorno quasi come un salto nell’acqua ghiacciata.
Decine di milioni di persone in tutto il mondo hanno esperienze di pre-morte. Circa il 20% è veritiero, e con ciò ci si riferisce a quelle persone che hanno avuto esperienze che possono essere confrontate con fatti dei quali non avrebbero potuto essere ordinariamente a conoscenza.
Le esperienze di pre-morte sono tipicamente esperienze coerenti e chiaramente “iper-reali”, dissimili dalle allucinazioni o dall’ipossia che potrebbero derivare da eventi fisiologici legati a un cervello morente. Peculiarità pressoché universali delle esperienze di pre-morte sono il potenziamento della coscienza e la limpidezza della conoscenza, anziché il torpore e la confusione caratteristici di un impoverimento cerebrale o dell’ipossia. I neuroscienziati materialisti hanno proposto una pletora di spiegazioni materialistiche per questo fenomeno, spiegazioni che tendono a essere psicologiche o fisiologiche, ma nessuna risulta convincente. I loro punti deboli includono l’incapacità di spiegare l’esperienza nella sua completezza, l’intenso realismo, le percezioni e i pensieri vividi, nonché l’effetto di cambiamento radicale di vita [che si produce nei soggetti interessati]. Un esempio: le spiegazioni materialistiche non riescono a dar conto del fatto che i bambini che affrontano le NDEs incontrino parenti che non hanno mai conosciuto perché scomparsi prima della loro nascita. Le spiegazioni materialistiche per le esperienze di pre-morte non sono plausibili: semplicemente, non le spiegano. In conclusione, se non fosse per il pregiudizio materialistico, nessuna spiegazione materialistica delle NDEs verrebbe presa seriamente in considerazione.
2c. Esperimenti correlativi
Localizzazione cerebrale e frenologia
Nel corso del XIX secolo gli scienziati scoprirono che certe regioni del cervello erano associate con funzioni neurologiche molto specifiche. Un esempio: una piccola regione del lobo frontale sinistro è solitamente associata con la facoltà di parola. Un danno in questa regione compromette il discorso. Le parti posteriori dei lobi frontali di entrambi i lati contengono neuroni che mediano il movimento sul lato opposto del corpo. La disposizione di questi neuroni è molto precisa, e lo studio di questi neuroni può portare alla produzione di una mappa del lato opposto del corpo. Regioni corrispondenti nei lobi parietali anteriori vengono associati al senso tattile, e la corteccia cerebrale fra i lobi occipitali sul retro del cervello viene correlata alla visione. Vi sono molte regioni assai specifiche nelle parti più profonde del cervello, così come nel tronco encefalico, e che corrispondono a funzioni fisiologiche come la regolazione del battito cardiaco, della respirazione e della secrezione di ormoni.
Nel corso del XIX secolo e nella prima parte del XX, la maggior parte dei neuroscienziati credeva che tutti gli aspetti della funzione mentale – incluse le funzioni superiori del pensiero astratto – fossero causati da regioni specifiche del cervello, alla stessa stregua di come lo erano il discorso, il movimento, la sensazione, la visione e le funzioni fisiologiche base. Ciò conseguiva con naturalezza dalla prospettiva materialistica per la quale la mente è causata dal cervello, senza alcuna eccedenza. Questa prospettiva scientifica, che fu chiamata ‘frenologia’, condusse al tentativo di correlare le funzioni intellettive superiori – come la capacità astratta di giudizio e la ragione – a specifiche circonvoluzioni del cervello [le circonvoluzioni del cervello sono le sporgenze curvilinee situate sulla superficie dei lobi cerebrali e cerebellari].
All’epoca i medici non avevano la capacità di visionare il cervello in una persona in vita (non esistevano MRI, raggi X, ecc.), tanto che i neuroscienziati si affidavano alla coeva ragionevole inferenza per la quale la forma del cranio fosse correlata con lo sviluppo del cervello contenutovi. I frenologi, che erano neuroscienziati, tentavano di correlare le funzioni intellettive superiori con la forma della testa, e la frenologia si fece davvero influente, in neurologia e in psichiatria, nell’ultima parte del XIX secolo e all’inizio del XX. Veniva utilizzata estesamente in criminologia per identificare individui propensi al crimine, e in psichiatria per evidenziare la predisposizione a malattie psichiatriche. Eppure, nella prima parte del XX secolo divenne chiaro quanto la frenologia fosse errata. Il pensiero astratto non era localizzato nel cervello allo stesso modo di come lo erano le altre facoltà della mente, come il movimento, la sensazione e la visione; e la forma della testa non forniva alcun indizio sul carattere [di una persona].
La frenologia non fu una pseudoscienza. Piuttosto, fu una scienza che utilizzò il ragionamento sistematico e l’esperimento, le predizioni del quale furono poi mostrate essere errate. Erano errate perché erano errati i ‘presupposti metafisici materialistici’ della frenologia. Se è infatti vero che certe facoltà della mente – come l’abilità di muovere gli arti, di sentire il tatto e di vedere – sono localizzate in regioni specifiche del cervello, è altrettanto vero come non siano localizzabili in modo simile le facoltà intellettive superiori. I neuroscienziati, sottoposti a critica, avrebbero dovuto mettere in discussione – ma non lo fecero – il materialismo sulla base del quale veniva enunciata la frenologia.
Il fallimento della frenologia è primariamente un fallimento della comprensione materialistica della mente. Sfortunatamente, mentre la frenologia fu gettata nel bidone della spazzatura della neuroscienza, il materialismo continua a essere l’impalcatura metafisica sulla quale viene elaborata la neuroscienza moderna.
Benjamin Libet e il non volere libero (free won’t)
Benjamin Libet (1916-2007) fu un neurofisiologo attivo a metà del XX secolo. Era affascinato dal tema del ‘tempo della mente’ (mind time). Studiò la correlazione fra attività elettrica del cervello e contestuale contenuto del pensiero. Condusse esperimenti importanti sulla correlazione fra pensiero e attività cerebrale, e quelli più famosi inclusero lo studio del libero arbitrio.
Libet chiedeva a volontari normali di partecipare a un esperimento nel quale le onde cerebrali venivano registrate da elettrodi posti sulla testa del volontario. Ai volontari veniva chiesto di posizionarsi di fronte a uno schermo che mostrava un orologio e si chiedeva loro di premere un pulsante in qualsiasi momento avessero volontariamente deciso di farlo. L’orologio registrava il momento esatto (con una risoluzione al millisecondo) in cui essi decidevano di premere il pulsante, e permetteva ai soggetti di cronometrare precisamente il momento in cui decidevano liberamente di premere il pulsante. Il tempo della decisione dei volontari poteva essere correlato con precisione con il tempo delle onde cerebrali.
Gli esperimenti iniziali di Libet mostrarono una relazione davvero coerente fra onde cerebrali, decisione volontaria ed esecuzione della decisione di premere il bottone. Lo scienziato trovò che approssimativamente 400 millisecondi prima che i volontari fossero consapevoli della decisione cosciente di premere il pulsante, si verificava un picco nell’attività cerebrale che sembrava corrispondere con il pensiero che il pulsante sarebbe stato premuto. È rilevante come questo picco nell’attività cerebrale si verificasse sempre ‘prima’ della decisione cosciente.
Gli esperimenti iniziali di Libet sembrarono dunque provare che il libero arbitrio non esista. Sembrava che la decisione cosciente dei soggetti volontari di premere il pulsante fosse causata da un’onda cerebrale non cosciente che precedeva la consapevolezza cosciente di quasi mezzo secondo. Ciò pareva implicare che il nostro senso del libero arbitrio fosse sbagliato: siamo guidati – forzati – a compiere le decisioni da parte di un’attività cerebrale della quale non siamo coscienti e sulla quale non esercitiamo controllo.
Libet era però uno scienziato prudente e decise di studiare la questione del libero arbitrio più in dettaglio. Chiese ai volontari di ripetere gli esperimenti nei quali decidevano di premere il pulsante e osservò il tempo della loro decisione; ma poi chiese loro di ‘rettificare la decisione di premere il pulsante’ e perciò di non premerlo. Sorprendentemente, constatò che mentre la decisione di premere il pulsante era invariabilmente preceduta da un picco non cosciente nell’attività cerebrale, ‘la rettifica era elettricamente silente nel cervello’. Libet interpretò questo risultato come dimostrazione che il cervello causi una corrente stabile di motivazioni non coscienti – le paragonò alle tentazioni – delle quali siamo liberamente (cioè spiritualmente e immaterialmente) capaci di rifiuto o accoglimento.
Notò la grande somiglianza fra le sue scoperte sperimentali e la concezione cristiana tradizionale della tentazione e del peccato. Ne concluse che siamo assaliti da tentazioni non coscienti sulle quali non abbiamo controllo, ma alle quali possiamo dare il permesso o il rifiuto di agire liberamente. Il nostro libero arbitrio è reale, concluse Libet, se lo concepiamo come ‘libero non-volere’ (free won’t), cioè come nostra libertà di accettare o rifiutare la tentazione.
Noam Chomsky e la grammatica universale
Gli approfondimenti di Noam Chomsky, autore già citato in precedenza, sono di grande importanza per la nostra comprensione del linguaggio, della mente e del cervello. Negli anni Cinquanta egli propose una teoria rivoluzionaria del linguaggio umano. Prima della sua ricerca, i linguisti accoglievano in genere un modello comportamentistico dell’acquisizione del linguaggio umano. Ritenevano, in altre parole, che i bambini apprendessero il linguaggio tramite un processo di tentativi ed errori, nonché rinforzo, cioè che i bambini esprimessero parole e frasi senza senso, e apprendessero il significato e la grammatica grazie al rinforzo genitoriale del linguaggio proprio. Chomsky dimostrò che mentre l’apprendimento infantile del significato delle parole seguiva questo paradigma, non altrettanto valeva per l’acquisizione infantile della grammatica. Il linguista svelò in pratica come il linguaggio umano contenga una grammatica universale presente in tutte le lingue particolari, e come la capacità grammaticale sia un tratto connaturale [all’uomo], non qualcosa di acquisito dai bambini dopo la nascita tramite tentativi ed errori. In altre parole, le parole specifiche che utilizziamo vengono sì apprese, ma la nostra conoscenza della struttura del linguaggio umano no: è innata [quindi, i principi fondamentali della grammatica sono comuni a tutte le lingue esistenti, essendo essi innati nell’uomo].
Gli esseri umani sono nati con una notevole capacità di sintassi che permette al linguaggio umano di esprimere una varietà infinita di idee. Nelle parole del linguista ottocentesco tedesco Wilhelm von Humboldt (1767-1835), la grammatica è ciò che ci permette «di compiere un uso infinito di mezzi finiti». Chomsky dimostrò che gli esseri umani sono nati con un «organo del linguaggio» – una capacità intrinseca per la grammatica – che manca a tutti gli altri animali.
La concezione di Chomsky sostiene l’inferenza per la quale gli uomini differiscono profondamente dagli animali per la loro capacità di pensieri astratti illimitati organizzati tramite la grammatica. Gli esseri umani utilizzano la grammatica per fare un uso infinito di strumenti finiti. Chomsky evidenzia che nell’uomo il linguaggio non è anzitutto un mezzo di comunicazione. È essenziale per la nostra abilità di pensare come esseri umani, per la nostra capacità di concepire una gamma illimitata di concetti. Il linguaggio è lo strumento con cui gli esseri umani pensano in un modo prettamente umano e – secondo Egnor – è un’impronta della natura immateriale della ragione umana.
Resta, a questo punto, la necessità di trarre conclusioni coerenti con quanto appena esposto. Dopo tutto quanto discusso, una concezione e una spiegazione materialistica dei dati empirici provenienti dalle neuroscienze risulta ancora possibile?
Conclusione: il successo del dualismo tomistico
Il dualismo tomistico e il materialismo nella neuroscienza moderna
Le ricerche influenti compiute nella neuroscienza nel corso del XX secolo sostengono chiaramente una concezione dualistica della relazione mente-cervello. Il materialismo fallisce da un punto di vista logico e anche come impalcatura di riferimento per la comprensione degli esperimenti testé elencati. Il cervello può essere scisso a metà (Sperry), ma il pensiero astratto e il senso di se stessi non vengono scissi. Il ragionamento astratto non può essere evocato a partire dal cervello materiale tramite stimolazione elettrica o convulsioni (Penfield). I pensieri astratti superiori non sono localizzati in regioni particolari del cervello (frenologia), ma il linguaggio è invece un’abilità astratta e connaturale agli esseri umani (Chomsky), e un grave danno cerebrale, e persino la morte, non asportano la mente (Owen e le ricerche sulle esperienze di pre-morte). Il libero arbitrio può essere dimostrato sperimentalmente (Libet e Penfield). Una sinossi utile dell’interpretazione dualistica della neuroscienza suggerisce tre proprietà della mente dimostrate in modo sperimentale:
- La mente è metafisicamente semplice (cioè non può essere scissa).
- L’intelletto è immateriale.
- Il libero arbitrio è reale.
Ci sono diversi tipi di dualismo: Egnor ritiene che il tipo di dualismo più confacente alla logica e alla neuroscienza moderna sia quello tomistico. Il dualismo tomistico è la teoria dell’anima sviluppata da S. Tommaso d’Aquino. È aristotelica nella sua cornice. L’anima è, aristotelicamente, la forma del corpo, e la mente rappresenta diverse facoltà dell’anima. Alcune facoltà della mente sono intimamente legate alla materia, come la sensazione, la percezione, l’immaginazione, la memoria e l’emozione. E ciò spiega la dipendenza significativa di molte abilità mentali da funzioni cerebrali.
Ma altre facoltà della mente – l’intelletto e la volontà – non sono generate dal cervello, sebbene ordinariamente dipendano dal cervello per la loro normale funzione. La nostra capacità di fare matematica, per esempio, è una facoltà immateriale della mente, ma è chiaro che se non possiamo vedere o sentire o restare vigili (che sono tutte facoltà materiali), non è presumibile che acquisiamo o esercitiamo abilità matematiche. Il cervello è necessario e sufficiente per la percezione, l’immaginazione, l’emozione e la memoria; il cervello è ordinariamente necessario, ma invece non sufficiente, per l’intelletto e la volontà. Le nostre facoltà materiali e immateriali della mente lavorano in concerto.
Il dualismo tomistico è la pietra angolare della comprensione cristiana dell’anima umana, ed è un’impalcatura eccellente per la neuroscienza moderna.
[…]
L’applicazione del dualismo tomistico alla neuroscienza può essere compresa considerando le quattro cause di Aristotele (formale, finale, materiale ed efficiente). Per spiegare la neuroscienza del mio scrivere questo articolo – commenta Egnor – il mio intelletto è la causa formale, la mia volontà di compiere questo lavoro è la causa finale, il mio cervello, i miei nervi e muscoli sono la causa materiale, e la fisiologia del mio sistema nervoso (neurotrasmettitori, potenziali d’azione eccetera) è la causa efficiente. La neuroscienza studia ordinariamente le cause materiale ed efficiente. La psicologia e l’etica studiano le cause finale e formale. Mentre una teoria materialistica della mente ci costringe a limitare la nostra comprensione alla mera materia, il dualismo tomistico ci permette di comprendere non solo la materia e le sue relazioni, ma anche il pensiero astratto e gli scopi inerenti agli atti umani.
Il dualismo tomistico ci permette di studiare tutti gli aspetti della neurobiologia senza negare la realtà della ragione e del libero arbitrio. A differenza del materialismo, ci permette di studiare la natura umana nel suo complesso senza imporre alla neuroscienza teorie materialistiche impoverite.
Prof. Michael Egnor, MD